“Sappi che avrai sempre una seconda casa e un pezzetto di mondo nel quale scappare quando ne avrai voglia” così mi saluta Anyelid, facendomi pizzicare gli angoli degli occhi a forza di cacciare indietro le lacrime. Lacrime che invece non riesco a trattenere quando saluto la mia famiglia panamense, offrendo una scena commovente ai viaggiatori presenti in aeroporto. Una volta sull’aereo mi lascio andare e, mentre tutti dormono distrutti dal jet-lag, piango in silenzio riguardando le foto, stando attenta a non svegliare i vicini colombiani che, con tanto di rosario in mano, si sono profusi in preghiere contro i vuoti d’aria e le turbolenze. Ripenso al mio quaderno, adesso pieno zeppo di biglietti di musei e di volantini, di dediche, disegni, canzoni spagnole e fotografie. Ripenso ai primi giorni, quelli più difficili, con il caldo torrido, il caffè bollente che al mattino mi appannava gli occhiali e l’umidità all’80% che mi appiccicava i capelli alla fronte. Ricordo che appena sveglia mi affacciavo dalla finestra del quindicesimo piano e ammiravo i grattacieli, il mare in lontananza, le rovine della vecchia Panama e il traffico perenne che già si riversava nelle strade affollate. La colazione, di base composta da burro, uova fritte nel burro, pane tostato e imburrato o pancake con burro fuso, era solo la prima delle grandi differenze che ho riscontrato durante il viaggio. La scuola, che a Panama inizia alle sette e mezza e finisce alle quattordici, era più piccola e tutti gli studenti nelle loro uniformi grigie e blu davano un piacevole senso di familiarità. Certo, all’inizio è stata dura: non sapendo lo spagnolo facevo spesso scena muta e non riuscivo ad esprimermi, negli intervalli non sapevo con chi parlare e a volte mi sentivo sola. Non avendo la divisa della scuola quando camminavo per i corridoi mi sentivo sempre qualche sguardo puntato addosso e soprattutto, a causa del fuso orario, non riuscivo quasi mai a parlare con i miei amici in Italia. Ripenso a come mi sentivo, non mi sembrava di appartenere a quel mondo, ma una vocina nella testa continuava a ripetermi di aspettare, di essere paziente. Ho capito di essermi ambientata, citando John Green, “nel modo in cui ci si addormenta: lentamente, e poi tutto d’un colpo”. Prima ero l’ospite, poi sono diventata un’amica, una sorella ed una compagna di classe, non più solo la “estudianta de intercambio”. Quando tornavo a casa, ormai sinonimo di wifi e aria condizionata, il mio cellulare iniziava a vibrare, bombardato dai messaggi dei miei nuovi amici panamensi che mi invitavano a fare un giro in città o a mangiare sushi. Mi sono ritrovata a cantare a squarciagola canzoni spagnole nel cuore della notte, su una macchina guidata da una mia compagna di classe, oppure a viaggiare direttamente nel bagagliaio. Mi sono ritrovata a consigliare alla guida del canale di Panama la lettura dei libri di Erri DeLuca e di Baricco, a costruire un robot munito di sensori di movimento grazie ad un progetto della scuola ed a fissare le stelle al planetario, dove le mie conoscenze classiche, in Italia discrete, si sono rivelate utili per identificare i pianeti. Mi sono ritrovata a prendere appunti durante una lezione di chimica e a scoprirmi davvero interessata sull’esito della formula, a piangere per un film e a intrufolarmi in una sala giochi per bambini, ad arrostire marshmallow attorno al falò e fare il bagno nell’oceano. Per non parlare del cibo: ho mangiato le raspados, granite guarnite da latte condensato, del succo di canna da zucchero, delle empanadas, una cavalletta al formaggio e per finire un panino con dulce de leche e banana, il mio nuovo dolce preferito. Da un giorno all’altro sono diventata parte della vita quotidiana, pian piano ho acquisito le abitudini e tutto è diventato più familiare. Ho iniziato a capire ciò che mi veniva detto, continuando però a comunicare col sorriso, impossibile da esprimere a parole, e la lingua non è più stata un problema. Negli intervalli giravo per i corridoi salutando e portando fieramente la polo dell’istituto panamense Enrico Fermi. Adoravo accarezzare “Miciu” il gattino di Alessandra, la mia sorella panamense, e quando entravo in cucina per prepararmi il pranzo, magari ancora in pigiama dopo aver dormito tutta la mattina, aprivo il frigo e mi sentivo a casa.
Quello che più mi ha stupita è stata la facilità con cui sono riuscita a stabilire legami, anche forti, con le altre persone. I miei compagni di classe erano fantastici, avevano una marcia in più! Ricordo che stavo scarabocchiando a penna su un foglio, facendo righe e quadratini per imitare i colori che non avevo. Il giorno dopo, appena entrata in classe, ho trovato sul banco dei pennarelli, che una ragazza aveva deciso di imprestarmi senza che io le chiedessi niente. Sono questi i piccoli accorgimenti che ti migliorano la giornata, e ti invogliano a ricambiare i favori con altrettanta gentilezza: ero sempre felice di prestare la mia felpa quando l’aria condizionata si faceva troppo fredda, o di regalare la mia merenda gratuita al bar della scuola a chi l’aveva dimenticata a casa. Anche a casa mi sentivo coccolata e benvoluta, la mia “abuela” spesso si fermava a parlarmi, e le importava davvero di sentire cosa avevo da dire. L’ultimo giorno è stato il più dolce di tutti, come quando arrivi alla fine di una scatola di biscotti e ti gusti l’unico rimasto pensando che sia il più buono. Dalle foto serie della prima settimana siamo passati ai “selfie” con smorfie e facce discutibili, dai sorrisi timidi di chi deve ancora scoprirsi siamo arrivati alle lacrime di chi non vuole separarsi. Tutte queste persone hanno avuto un grande impatto sulla mia vita, e mi piace pensare che anche io abbia lasciato loro qualcosa, come a Paola, che il primo giorno sosteneva che “mangia mangia, cibo cibo” fossero le uniche parole che conosceva in italiano, e l’ultimo mi ha salutata formulando comparativi e superlativi alla perfezione. Partita dall’Italia non avrei mai immaginato di tornare indietro così; mi diranno che sono diversa, che sono cambiata, ma forse è proprio questo lo scopo di uno scambio: di farti crescere e diventare indipendente, riconoscendo però l’indispensabilità dei contatti umani. Si impara di più su se stessi quando ci si estrapola dal proprio contesto. Ho dovuto viaggiare 5.896 miglia per capirmi ed accettarmi un po’ di più.
E adesso che sono tornata, i miei genitori ed una mia amica mi stanno aspettando e non vedono l’ora di rivedermi, per cui mi lavo la faccia per togliere gli ultimi segni del sonno e del pianto dal viso e recupero il mio bagaglio. Qualcuno ha detto “Non piangere perché è finita, ma sorridi perché è successo”, ed io sono determinata a seguire questo consiglio, perché, uscendo dall’aeroporto, ho realizzato che, nonostante tutto, il mio viaggio non è mai finito.
Lisa Picatto (3B)