Fiaba disordinata

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Appoggio la fronte alla spalliera metallica del letto. Un brivido mi scuote tutto il corpo. La maglietta che ho addosso è molto leggera, forse dovrei vestirmi e muovermi, fare qualcosa.

Provo a staccare la mano dal cuscino su cui è appoggiata come senza vita, pare che tutto il mio sangue e tutte le mie energie si siano concentrate nella testa, che mi pulsa terribilmente.

Sento il battito accelerato del cuore sulle tempie, nelle vene. Mi sembra che la metà superiore del corpo stia per scoppiare mentre la metà inferiore è abbandonata sulla coperta e non dà segni di vita, se non qualche brivido ogni tanto.

Pian piano la testa smette di pulsare così violentemente e mi sento invadere da un’acqua leggera che mi fa scivolare nel sogno, non dormo ma sogno ad occhi chiusi, sento il letto e la stanza ma la percezione più forte è un odore di fine estate, un misto di malinconia, calore e salsedine. C’è una luce stupenda, di tramonto sul mare, e sulla sua schiena un raggio rosso disegna una specie di piccola luna storta. La sfioro con un dito e poi la bacio, ma lui non si sveglia, si limita a sorridere nel sonno. Sotto il mio braccio la sabbia cede e mi ritrovo con i capelli pieni di granelli dorati. Scuoto la testa e sulle mie gambe si forma un velo di minuscole pietruzze, mi accorgo che ha la forma di una goccia. Improvvisamente mi rendo conto che è tardi, che gli altri mi staranno cercando da un pezzo. Gli accarezzo i capelli più volte, finché si sveglia e mi sorride, stirandosi.

Gli dico che devo andare e lui fa la smorfia di un bimbo deluso, mi metto a ridere. Lo saluto con un bacio e comincio a risalire la spiaggia fino al sentiero che porta in paese.

Un brivido più forte degli altri mi fa tornare qui, al letto e alla stanza, al Giorno della Visita. Riesco a sollevare le mani dalla coperta e me le passo sul viso. Poso lo sguardo sul calendario e lo stacco dalla parete. Giro i fogli all’indietro e conto. Novembre, ottobre, settembre, agosto. Dato che oggi è il quindici, tre mesi o poco più.

Tre mesi dall’ultima volta in cui siamo stati insieme e due settimane dalla telefonata di Giorgia. Due settimane. Sorrido amaramente pensando a quanto sono state lunghe. Ogni giorno era un’attesa snervante, erano ventiquattro ore in cui l’unica cosa che riuscivo a fare era aspettare, aspettare che passassero e pensare a lui, a noi due. Ma perché mi sono lasciata coinvolgere da questa storia, io che ero sempre stata del parere che le storielle da vacanze al mare fossero una cosa estremamente stupida. E lo sono ancora, sorrido tra me e me, anzi sono sempre più del parere che siano delle cretinate.

Boh, chissà. Forse perché lui era bello e mi sentivo lusingata dal fatto che gli piacessi proprio io, che mi ero sempre considerata la bruttina della situazione. Forse perché avevo paura di una storia seria e mi sono lasciata andare all’essere coccolata senza dover pensare a una vita in comune. Sicuramente tutta la gente che mi aveva sempre ritenuta matura si sbagliava. Non lo sono affatto, quale che sia stato la motivazione di questa storia.

A settembre pensavo molto raramente a lui, se anche l’avessi rivisto sarebbe successo l’estate successiva e per me la sua esistenza non costituiva un problema.

Poi ho ricevuto la telefonata di Giorgia. Era Halloween e mi ero rifiutata categoricamente di travestirmi e andare a festeggiare a casa sua, avevo preferito rimanere a leggere sul mio amato divano. Una serata come tante.

Quando ho messo giù la cornetta ricordo di avere avuto un momento di cinismo in cui mi sono detta che in narratologia quella telefonata era quello che si chiama “fatto scatenante”. Ripensandoci ora trovo tutto questo molto simile ad una fiaba. Equilibrio iniziale: la protagonista è penalizzata da se stessa. Incontra un principe azzurro momentaneo che la fa diventare la sua regina per due settimane. Avvengono le solite peripezie per cui i due si separano perché, nel nostro caso, ognuno torna ai suoi studi. A questo punto entra i scena il fatto scatenante: è fuori posto, effettivamente questa è una fiaba disordinata. Comunque, fatto scatenante la telefonata dell’amica in lacrime che le racconta di avere saputo da Davide che lui è affetto da AIDS, le ha chiesto di avvertirla. Ora due settimane di attesa, un crescendo di ansia per arrivare fino al momento di massima tensione, la spannung, e cioè oggi. L’ultimo passaggio, il ristabilimento in bene o in male di un equilibrio, deve ancora avvenire e sarà il caso di renderlo possibile.

Mi alzo e vado in bagno. Mi faccio una doccia veloce e fredda, che mi calma ma accresce la sensazione di freddo che ho in tutto il corpo. Mi vesto con il maglione più spesso che ho, mi pettino, prendo la borsa ed esco. Sono così in anticipo che posso arrivare all’ospedale a piedi. Via dopo via arrivo nel parcheggio e sfuggo alle macchine frettolose, riesco a raggiungere l’ingresso e poi le scale. Terzo piano, quinta porta sulla destra. Busso senza nemmeno prendermi il tempo di recuperare il respiro, mi apre una dottoressa giovane e sorridente. Può sorridere, lei. A me sembra di non poter muovere nessun muscolo del viso, a mala pena riesco a parlare. Rispondo alle sue domande con distacco sorprendente, poi mi visita. Non dice nulla, solo che “per sicurezza ” mi farà lei stessa gli esami del sangue. Mi vesto, lei mi fa un prelievo e poi scendiamo fino al laboratorio delle analisi. Lei entra, io mi siedo sulla panca blu, stretta nella mia ansia e nel mio giaccone.

Esce. Mi si avvicina e io chiudo gli occhi, non voglio vedere la sua espressione, voglio solo sapere se l’ho preso o no questo maledetto virus o forse neanche quello, voglio solo sparire e non sapere più nulla neanche di me stessa.

Tre parole. Tre parole mettono fine alla spannung e ricompongono in bene l’equilibrio.

Fuori, nel freddo di novembre, vorrei gridarlo a tutto il mondo. Tutto a posto.

 

Chiara Murgia

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