Canada: un paese multiculturale, una società aperta e favorevole all’immigrazione, un punto d’incontro in cui convivono centinaia di nazionalità, religioni, lingue e etnie e che sembra distante anni luce dalle tendenze xenofobe che stanno prendendo sempre più piede nel resto del mondo. Una popolazione talmente variopinta che sembra quasi impossibile incontrare qualcuno che si definisca totalmente “canadese”. Eppure, sono proprio coloro a cui questa descrizione meglio si addice, ovvero i discendenti di chi in Canada ci abitava da molto prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo, ad essere gli unici che sembrano non trovare posto in una società così accogliente. A giugno 2019 è stato diffuso il rapporto di un’indagine governativa riguardante le numerose sparizioni e morti di donne appartenenti ai “First Nations”, nome che in Canada definisce la popolazione indigena. L’inchiesta, secondo la quale le donne native avrebbero una probabilità di essere uccise o rapite 12 volte più alta rispetto alle altre donne canadesi, ha denunciato l’indifferenza del governo riguardo questa problematica e la superficialità con cui vengono spesso condotte le indagini quando la vittima è di origine nativa americana. A fare scoppiare la polemica è stato l’utilizzo del termine “genocidio” per descrivere le azioni e le omissioni del governo canadese che hanno contribuito alla scomparsa di più di mille donne indigene nel corso degli ultimi trent’anni. Anche in questo caso la terminologia può essere messa in discussione, ma un “genocidio canadese” è davvero avvenuto e non indica soltanto le atrocità che hanno causato la morte di milioni di indigeni durante la colonizzazione del territorio nordamericano. È stato un genocidio perpetrato per più di tre secoli, che nel tempo ha cambiato forma e che, dall’essere un processo di sterminio, è diventato un processo di “assimilazione”, mantenendo sempre però lo stesso obiettivo: liberarsi dell’identità indiana e di tutti gli inconvenienti che essa avrebbe dovuto rappresentare per il paese. Ancora oggi i First Nations soffrono le conseguenze del sistema creato dal Canada quando eliminare fisicamente e indiscriminatamente gli aborigeni non era più stato possibile. Un sistema di “Residential School” con l’obbiettivo di accogliere i bambini indiani e fare in modo che una volta usciti fossero perfetti occidentali, cattolici e, possibilmente, bianchi. I figli degli aborigeni venivano sottratti forzatamente alle proprie famiglie, che nella maggior parte dei casi non avrebbero più rivisto. Una volta all’interno della scuola, venivano spogliati dei loro abiti tradizionali e lavati in un bagno di sostanze chimiche, con l’intento di provocare lo schiarimento della pelle, mentre i capelli lunghi, che hanno un valore sacro nella cultura indiana, venivano tagliati. Nessuna lingua era permessa all’infuori dell’inglese; i bambini erano privati anche del proprio nome, che veniva sostituito con uno più conforme alla cultura occidentale. Dei 150,000 che hanno frequentato le “scuole residenziali”, oltre 6000 morirono a causa di malattie, malnutrizione, abusi sessuali, violenze fisiche e carenza di cure. Quelli che invece ne uscirono vivi si trovarono costretti a convivere con gli orrori subiti durante l’infanzia e incapaci di integrarsi in una società che li aveva portati a rinnegare la propria identità; trovarono rifugio nell’uso droghe e in particolare nell’alcoolismo, che ancora oggi affligge circa un quarto dei First Nations.
L’ultima scuola residenziale è stata chiusa nel 1996. A pagare le conseguenze di questo sistema di vero sterminio culturale, però, non è solo chi ne è stato vittima in prima persona. I danni causati ai sopravvissuti hanno compromesso le loro famiglie. I bambini che nelle residential schools non hanno conosciuto altro che abusi e violenze, spesso una volta adulti non hanno saputo come crescere i propri figli se non con la violenza. Molti bambini First Nation crescono sentendo di non far parte né della società canadese che ha inflitto tanta sofferenza al loro popolo, e neanche di quella indigena, la cui cultura è stata distrutta e cancellata; il sentimento di inadeguatezza viene tramandato di generazione in generazione. Il Canada, quindi, è sicuramente il paese dell’integrazione per i più, ma anche quello che sembra non trovare posto per chi “per primo” ha camminato sulla sua terra.
Camilla Marchet, corrispondente dal Canada