La marionetta fissa la clessidra e si chiede se anche per lei il tempo trascorrerà, se con quell’ultima omissione di volontà si è sottratta davvero a tutto, compresa la vecchiaia, come gli aveva promesso il burattinaio.
La cosa più strana all’inizio era stata l’impossibilità di muoversi volontariamente, l’istinto di alzare un braccio e il rendersi conto che l’arto rimaneva immobile e fisso al suo fianco. Ma Pierrot si era arreso senza troppa disperazione a quest’immobilità forzata: chi vende la propria volontà del resto, non può scegliere di muovere alcunché. Solo quando occasionalmente il burattinaio lo cala dall’alto nel sipario può guardare ipnotizzato il suo corpo rigido scosso da spasmi inconsapevoli. Ma non sente nulla, nemmeno i fili inchiodati ai polsi e alle caviglie. Non sente gioia, dolore, amarezza, né altra emozione o sensazione che creatura vivente possa sperimentare. Le ha cancellate tutte dalla sua vita in una notte d’estate quando, tentando di ammazzarsi giù da un ponte era finito dritto su una chiatta di rifiuti, fallendo miseramente anche quella che sarebbe dovuta essere l’ultima delle sue imprese. Lì, fra l’odore di pesce marcio e il rumore dell’acqua che scorreva, era arrivato, o meglio, era comparso il burattinaio. Senza aprir bocca aveva cominciato a misurare il suo corpo spezzato, a controllare la durezza delle sue ossa, il colore della sua pelle e per ogni pezzo gli aveva proposto un affare: per la gamba sinistra la fama, per il bacino ormai sgretolato la ricchezza, per un occhio l’amore. Ma Pierrot non credeva più in niente, né all’amore, né alla ricchezza, né alla fama né a nient’altro. Solo la disperazione gli aveva chiaramente dimostrato la propria esistenza e ormai l’unico desiderio di Pierrot era sfuggirgli. Ma ogni sua azione, fino a quel momento sembrava rientrare nel piano divino più aberrante, triste, squallido e angosciante che il creatore avesse potuto creare in una giornata no. Una sfortuna al di là di ogni previsione aleggiava su di lui, qualunque cosa facesse.
Pierrot aveva optato per il suicidio, ma persino la morte sembrava temere i vitrei occhi di un uomo ormai sfinito. Così invece di morire si era sfracellato. Non abbastanza per lasciare il mondo dei vivi, ma sufficientemente per attirare le attenzioni del burattinaio. Dopo numerose proposte allettanti, finalmente il moribondo aveva parlato: “Ti do la mia volontà. Te la regalo, assieme a tutta la baracca, ma tu mi devi promettere che così facendo, senza più alcuna responsabilità, liberandomi da ogni desiderio, speranza, o aspirazione, togliendomi ogni possibilità di scelta, la vita perderà il diritto di punirmi. Di premiarmi, anche … Ma soprattutto di punirmi. Sarò slegato e libero dalla bizzarra lotteria di Dio. Non potrò più soffrire”.
Con queste parole Pierrot, al tempo Pierrot Lasenne e ora Pierrot la Marionetta, aveva compiuto il suo ultimo atto di volontà. Da quella sera, ogni sera appoggiato ad un muro guarda le altre marionette esibirsi. Qualche volta tocca a lui, ma nel suo caso quasi mai il pubblico applaude. Clarinette, la bambola bambina, gli spiega che è colpa della sua inespressività, dello sguardo vuoto, della bocca né aperta né chiusa. Lei invece piace al pubblico. Costretta a morire sotto i bombardamenti, nei suoi occhi è rimasto ben impresso il terrore, la voglia di crescere e la disperazione di non poterlo fare in quel corpo di porcellana … Come aveva desiderato del resto, in cambio della sua carne non sarebbe morta e, in effetti, le bambole di porcellana non muoiono. Pierrot invece con la sua vacuità porta angoscia persino a quello sciame di occhi bianchi che, nell’oscurità, brama il dolore e il macabro destino della bambola Clarinette. Il burattinaio, ostinato, di tanto in tanto lo esibisce lo stesso. Quando capita la marionetta ricorda con ossessione una litania, recuperata da chissà quale memoria ormai antica:
“Questo misero modo tegnon l’anime triste di coloro che visser sanza ‘nfamia e senza lodo. Mischiate son a quel cattivo coro de li angeli che non furon ribelli né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. Caccianli i ciel per non esser men belli, né lo profondo inferno li riceve, ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli . Questi non hanno speranza di morte e la lor cieca vita è tanto bassa, che ‘nvidiosi son d’ogne altra sorte. Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna”.
Ritrova in qualche modo queste parole negli occhi del pubblico e se potesse ancora provare rabbia, sarebbe quella a invadergli il viso. Ma siccome anche questa gli è stata preclusa, solo un pensiero lineare percorre la sua mente: “E’ stata una mia scelta. L’ultima”.
Eugenia Beccalli (5F)