Mia madre non è stata né buona né paziente con me. Ma neppure crudele o cinica. L’esatto termine per definire il nostro rapporto credo sia indifferenza.
Diceva che eravamo troppi in famiglia. Troppi per poter ricevere, equamente, una sufficiente dose d’attenzione da parte sua. Poca attenzione e poca istruzione. Se volete imparare, guardate e provate, io non sono un professore, sono vostra madre. Il mio scopo è nutrirvi e cercare di crescere il numero massimo di voi, fino a che non saprete farlo da soli.
Era una fertile, mia madre, ho parecchi fratelli.
Ma per poter essere tale, prima doveva essere robusta e in forze Lei.
Per questo a volte ci mangiava. Per poter allevare gli altri e partorire ancora.
Sembra una pura malignità detta così, ma lo faceva solo in tempi di carestia e solo alcuni di noi. I più deboli. La verità è che quando si ha poco, l’etica e la morale cambiano, si sfumano. Io non biasimo mia madre, in fondo lo faceva quand’era ridotta alle strette, senz’altre soluzioni.
Quando si ha poco, il cibo prende un’ottica più ampia. Cose che prima sembravano immondizia hanno, d’un tratto, l’aspetto di delizie golose. E ci si rende conto che per nutrirne cinque, lo zoppo deve diventare preda.
Ho visto cose brutte, quand’ero piccolo.
Ricordo che in quei tempi di carestia ci mangiavamo pure tra noi. Ci sbranavamo nella culla, per sopravvivere.
Non ho mai conosciuto mio padre, ma non mi è mai importato granché.
Anche se, ogni tanto, da giovane, mi capitava di intravedere qualcuno, per strada, che mi rassomigliava un po’, e allora mi domandavo, e mi veniva quasi voglia di tornare indietro, raggiungerlo e chiedergli perché. Perché ci avesse abbandonato tutti.
Perché mi hai abbandonato, papà? Perché mi odi? Domande semplici. Poi forse l’avrei ucciso.
Potevo sbagliarmi, poteva essere solo uno che mi somiglia, ma non era per questo che non lo facevo mai. Avevo paura di incontrarlo davvero, mio padre. Paura di quello che avrei potuto fare. Nei miei pensieri, lo strozzavo guardandolo negli occhi, bucandogli il profondo dell’anima. Così non mi voltavo mai e continuavo a camminare.
Un giorno poi ho trovato un corpo, proprio dietro casa.
Era un corpo in disfacimento, nascosto lì da lungo tempo.
Un corpo senza testa. Decapitato. Riposto con cura, quasi in posa, ben nascosto tra le radici di un titanico acero. Un cadavere antico. Notai in breve che la carcassa era stata mangiucchiata, mezza digerita.
Certo, a stare lì tutto quel tempo, chissà quanti ci avranno banchettato.
Volevo correre da mia madre e gridarle concitato la mia scoperta (all’epoca avevo il gusto del macabro), corsi come un pazzo sulle foglie scricchiolanti.
Correvo come corrono i ragazzi, senza sapere bene dove andare ma con una gran voglia di farlo.
Con una caduta a singhiozzo, inciampai nella testa mozzata.
La ripulii dai rimasugli di terreno ed ebbi uno shock.
Mi stavo guardando in uno specchio.
Il teschio era uguale a me. Stessi lineamenti, stesse proporzioni.
Realizzai subito.
Era stata mia madre.
Lei lo aveva ucciso. Aveva ammazzato mio padre.
Perché? Per sopravvivere. Una volta rimasta incinta aveva bisogno di nutrirsi, ma doveva stare a riposo. Con la carestia, mio padre non avrebbe mai trovato del cibo in tempo e a sufficienza per entrambi. Lei ne sarebbe morta, assieme a tutti noi.
Capii che mio padre si era sacrificato, offrendosi in nome dell’amore per i suoi eredi e di quello provato per la sua amata, mia madre. Mia madre, l’assassina. Che dopo aver acconsentito, non riuscì a completare il pasto. Assimilò solo il minimo necessario per proseguire la gravidanza e poi, ingozzata dal pianto, lo mise in posa composta, adagiato su quel lettino di muschio dove io l’avevo trovato.
E in quel momento, capii anche che la stessa coraggiosa sorte, sarebbe probabilmente toccata pure a me.
Che volete che vi dica. È fottutamente dura la vita di noi ragni!
Guido Bertorelli