Ogni giorno sentiamo o leggiamo di casi di suicidio avvenuti nel mondo. Ma perché le persone compiono questo atto? Cosa le porta a tanto? Generalmente, una persona arriva a pensare al suicidio quando crede che non ci sia più nessun altra via d’uscita per rimediare al dolore che prova. Le cause di suicidio possono essere molteplici: depressione, schizofrenia, disturbo bipolare, disturbo borderline della personalità e altre malattie mentali; ma anche esperienze infantili traumatiche o patologie mediche. La sclerosi multipla o i tumori, per esempio, contribuiscono al 20% dei suicidi compiuti da persone anziane. Altri fattori di rischio aumentano la probabilità che una persona si tolga la vita: un comportamento aggressivo o impulsivo, un lutto, essere vittima di bullismo, l’abuso di sostanze o una dipendenza; ma anche tristezza e disperazione persistenti, stress finanziario, conflitti relazionali o la detenzione carceraria.
Si stima che, solo tra le persone di età compresa tra i 15 e i 35 anni, ogni anno si contino 800 mila suicidi in tutto il mondo. Numeri che fanno paura. Come altrettanto inquietanti sono gli strumenti usati per raggiungere lo scopo. Statisticamente le armi da fuoco rappresentano maggiori garanzie di riuscita; ma subito dopo si trovano l’ingestione di pesticidi e l’impiccagione. Il dato più sconcertante, tuttavia, è messo in luce dall’OMS quando afferma che il 79% dei suicidi si verifica in paesi che possiedono un reddito medio/basso.
Le azioni preventive, tuttavia, non mancano. Basti pensare al supporto offerto da diversi gruppi o associazioni, come il Telefono Amico in Italia, che si concentrano sull’ascolto e sulla disponibilità all’aiuto per tutti i soggetti più a rischio. Il primo passo da compiere per prevenire un suicidio, infatti, è quello di riconoscere i segnali esterni che il più delle volte si manifestano tramite tristezza, stanchezza, ansia, irritabilità e, nei casi peggiori, anche aggressività. La persona che prova istinti suicidi spesso ritiene di essere inutile, di non riuscire a trovare soluzioni ai propri problemi e quindi di aver fallito; si sminuisce e non ha autostima. Questo comporta la tendenza ad isolarsi, un distacco dalla famiglia e dagli amici, un abbandono degli interessi e delle attività sociali. Risulta fondamentale quindi notare qualsiasi variazione nel comportamento: umore,consumo di alcool/farmaci superiore a quello abituale, irritabilità, ecc.
Un caso diverso, che è fonte di un dibattito accesissimo, è quello del suicidio assistito o dell’eutanasia. Per chi ha delle patologie gravi, come chi dopo un incidente rimane paralizzato o subisce dei traumi permanenti a livello fisico e mentale, e vuole smettere di provare questo “dolore” esiste l’eutanasia: dal greco “eu-thanatos”, letteralmente “buona morte”, l’eutanasia è l’“uccisione” in maniera “dolce” di un individuo consenziente e in grado di esprimere la sua volontà di morire. Benché molti usino la parola eutanasia come sinonimo di suicidio assistito, è bene sapere che sono due pratiche simili ma diverse: nel suicidio assistito, anche se il soggetto è consenziente, si richiede una partecipazione attiva di quest’ultimo, poiché è necessario che la persona in questione assuma il farmaco letale autonomamente, a differenza dell’eutanasia in cui il soggetto può esprimere il suo consenso ma verrà poi assistito da medici esperti.
In molti paesi, come per esempio in Olanda, queste due pratiche sono state legalizzate. In Italia non è possibile praticare l’eutanasia, poiché costituisce un reato ai sensi dell’articolo 579 (omicidio del consenziente) e dell’articolo 580 (istigazione/aiuto al suicidio). Al contrario, il suicidio assistito (inteso come assistenza nel porre fine alla vita di una persona malata) è legale, ma non praticato. Ma perché la prima è illegale mentre il secondo non lo è? La sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale ha individuato quattro requisiti per poter giustificare un aiuto al suicidio: la presenza di una patologia irreversibile o incurabile, gravi sofferenze fisiche e psichiche, la capacità di prendere decisioni libere e consapevoli e la dipendenza di trattamenti di sostegno vitale. Anche in Italia l’eutanasia dovrebbe essere resa legale, proprio poiché lo è già il suicidio assistito: l’impressione è che la distinzione fra le due pratiche di fronte alla legge, sia dovuta più a considerazioni di carattere “etico” che a ragioni formali; tenuto conto anche del fatto che il suicidio assistito si configura come una pratica più “rude”, dal momento che, come detto prima, necessita della partecipazione attiva della persona interessata.
Alessandra Libri