Il profumo del timo stuzzica il naso. Avvolgente odore si fa mio, non esiste confine tra questa carne pulsante e la lacrimosa essenza di questo odore.
I sassi, carezzati da verde muschio, graffiano sporchi pantaloni. Non esisto qui. Non mi appartengono quelle pizzicate narici, quelle pulite sbarre sul viso. A frotte, i ferri si accalcano per impedire il passaggio di umili mosche (possibili estremiste politiche). Il ferro dei fucili allineati si riproduce in assenti occhi. Ma non nella sua luce. Stupenda quella esile fanciulla esiliata senza ragione. Tra polverose nevi, offre omaggio alla propria terra, offre se stessa a quell’odore, altare delle sue speranze. Non esisto qui. In mente, quelle file di ferragliosi soldati a forma d’uomo: stretti in un assente, muto abbraccio, uccidono immaginazione. Non esisto nella mia terra. é lontana, troppo vicino il bacio di quei civili fucili, l’odore che riempie i polmoni è polvere assassina. Vibrano le curve delle orecchie di suoni persi nel tempo. Non più campestri odori, non più sabbiosi paesaggi. Solo straziate pelli, rossi arabeschi sui muri e grida angosciate al mercato, è la mia terra. Il vento non chiacchiera i suoi profumi ed io sono un guscio vuoto, in attesa di appartenere ad un’anima. Ma guarda! Il viso tende di nuovo i suoi fili, il sorriso si rivolge a quella stupenda fanciulla, immersa nel timo, nel suo odore. Esisterò, forse, quando le sottili dita del vento ricominceranno a gridare.
GIARDINO DEI MONACI
Tic. Tic. Tic. Sento odore di té, si è fermato sulla punta del naso, un fredda unghia accompagna le odorose goccioline. é un lampo azzurro che incornicia quelle ridenti pupille così vicine al mio risveglio, il sorriso sempre teso, sull’orlo delle risate. Con le lacrime agli occhi, corre in salone, si nasconde dietro la porta, vuole giocare a nascondino come ogni mattina. >>barbekü bugün<<. Jansu si osserva nel frammento di specchio sulla scrivania e, soddisfatta, mi sorride. Il solito giro di vocabolari illumina la conversazione tra sospiri e timide risa. >>Oggi barbecue<<, dunque. Sono a mio agio, qui. Un abbraccio della nonna lega la sciarpa al collo, mima il freddo, aprendo il sipario sdentato del suo sorriso. Abito a pochi scalpiccianti passi dalla scuola, già per strada i bambini notano questa strana crespa massa di capelli. Passato il cancello blu, non si riescono a contare le manine. L’indistruttibile pulmino è già in cortile. Passeremo un po’ di tempo qui, a lezione, ma è solo un modo di dire: i bimbi gridano nomi, offrono indirizzi, chiedono infinite foto.
Ma tutto si spegne e si consuma nella carezza dell’erba d’un giardino. L’unico suono è il fruscio di un vicino ruscello. Il cielo è pulito, il caldo è filtrato da verdi fiamme,pulsante linfa avvolge le ombre dei monaci legati a questo brulicante odore. Il fumo della carne arriva fino all’impertinente naso, una risposta viene subito data dalla fame. Non facciamo caso al mangiare per terra, le gambe si piegano da sole sul terreno fresco, le mani cominciano a spolpare gli ossicini e finiscono col raccogliere semini neri e pulire succo rosso ed appiccicoso per far spazio al sonno. Qui siamo della stessa materia del sogno, eterei. Ed è così pacifico, distrarsi è così semplice. Sono sempre stata convinta che l’unico modo per rendere il volo uno sport praticabile all’uomo, si dovessero scrivere due regole all’apparenza idiote: a)Se si è convinti di cadere, non si vola; b)Pensare ad altro. E, seguendo questo semplici passi, sono
partita per un volo che supera i limiti dell’assurdo. L’abbagliante pavimento del Palazzo Reale ha fornito ulteriore materiale alla mia distrazione, portandola al livello successivo, quello della totale indifferenza per il movimento. Dunque fu così che incontrai una lastra di pietra troppo bassa. Ora il corpo era seriamente diviso dalla testa, di questa era rimasto un turbinio di colori e forme sgargianti, improvvisi cambiamenti di luci e voci, spilli nel cranio. Acqua, mani calde, troppe addosso, zucchero. E ambulanza, rumori, scossoni, ospedale. L’ultima notte, passata in albergo, con l’immagine dei sorrisi incerti in sala d’attesa, il tremante bacio impaurito, e di quelle calde lacrime sulla spalla della bionda sorellina.
Iris Canarutto (3D)