A tre mesi dall’entrata in vigore della famosa e dibattuta Legge Cirinnà, nella nostra amata madre patria spopolano le cerimonie. Per alcuni una sconfitta, per altri un successo. Sicuramente la 20 maggio 2016 n. 76 è stata un grande passo avanti. Come negarlo? Eppure non si può dire che sia una legge all’avanguardia, neppure moderna. Non è una legge equilibrata, non conferisce pari diritti a tutti i cittadini italiani. Insomma, una maratona ci separa dal traguardo. In Australia tutto questo succedeva ben 17 anni fa. E in tanti Paesi, europei e non, si combatte per eliminarle e sostituirle con matrimoni omosessuali.
Ebbene no, come purtroppo troppe poche persone sanno, non si tratta della stessa cosa. Sotto molti aspetti sono analoghi, senza dubbio. Ma non la stessa cosa. Esiste ancora un divario fra questi. La differenza? In primis, la non unitarietà dei legami. Nei paesi in cui sono in vigore le unioni civili, i matrimoni sono ancora esclusivamente riservati a coppie eterosessuali. In Italia siamo stati poco pratici, forse ottusi: perché creare un’altra istituzione, quando si poteva estendere quella preesistente a tutti? Guai a conformarci una volta per tutte con gli altri stati. Guai a guadagnarci il titolo di nazione equanime. Il divario si vede ancora più chiaramente nella scelta terminologica. A sentire “matrimoni omosessuali” viene la pelle d’oca, non è così? Meglio chiarire fin da subito che le unioni civili non sono dei matrimoni; che coppie eterosessuali e omosessuali di uguale hanno solo il lemma coppia, nient’altro; che l’ultimo aggettivo non è superfluo, ma sta a discriminare la natura degli atti sessuali.
L’Australia è una di quelle nazioni che lotta con le unghie e coi denti per le cerimonie egualitarie. Le unioni civili sono in vigore dal 1999; ma il Marriage Amendament 2004 – emendamento del Marriage Act 1961, che non specificava la natura dei matrimoni – consente il matrimonio alle sole coppie di sesso diverso. Sono ormai diversi anni che il Labor Party, il maggior partito di sinistra, presenta progetti di legge in parlamento con lo scopo di abrogare le unioni civili. Ripetutamente rifiutati. Le cose cambiarono solo quando il primo ministro incredibilmente di destra dello scorso mandato, Tony Abbott, sentenziò che durante il mandato seguente si sarebbe tenuta una forma di voto sull’argomento. O un plebiscito, o un referendum costituzionale, ma non in parlamento. Che l’abbia fatto più per togliersi il problema che per altro non è un segreto. Ad ogni modo, nel luglio di questo anno si è tenuto il passaggio del testimone. E Malcolm Turnbull, nuovo primo ministro dello stesso schieramento, si è ritrovato con la patata bollente in mano. Con la promessa di una qualche forma di voto. Due cose, però, devono essere chiarite: punto primo, questi è uno che in Italia considereremmo di centro. Infatti, è uno di quei pochi parlamentari liberisti che ha sempre sostenuto di essere favorevole ai matrimoni gay. Diventato capo dello stato, però, si è ritrovato faccia a faccia con le promesse e con le condizioni del proprio partito. Punto secondo, il partito al governo ha una maggioranza molto risicata. Il leader dell’opposizione, Bill Shorten, ha perso le elezioni solo per una manciata di voti. Ed ecco che incominciamo a capire le dinamiche: il governo non voleva votare direttamente in parlamento perché ci sarebbero state troppe possibilità che la legge passasse effettivamente. Secondo le logiche conservatrici, un plebiscito risolverebbe i problemi in quanto rappresenta solo ed esclusivamente una consultazione popolare, non ha valore effettivo. Quindi se la popolazione risultasse non favorevole, la questione si chiuderebbe lì. Ma se la popolazione risultasse favorevole all’estensione del matrimonio a tutte le coppie, ci sarebbe in ogni caso la possibilità che il parlamento rifiuti l’emendamento. Niente matrimoni gay. Il plebiscito per la destra è una win-win, una doppia vincita. Sfortunatamente, o meglio fortunatamente, questa soluzione ha tanti difetti: per prima cosa i costi. Si stima che richieda allo stato 160 milioni di dollari australiani, circa 106 milioni di euro. Inoltre, dà gli stessi risultati degli opinion polls, che sono anch’essi dei sondaggi popolari. Poi non è un voto obbligatorio, quindi vi è sempre la possibilità che solo le persone più motivate vadano a votare. E allora perché spendere tutti quei soldi e tutto quel tempo per una conferma di quello che praticamente si sa già? Gli ultimi sondaggi riferiscono che il 72% della popolazione australiana è già favorevole. In aggiunta, il governo deve far passare in parlamento la proposta del plebiscito prima di metterlo in atto. E senza il sostegno dell’opposizione, non c’è possibilità che ottengano i voti necessari. Ed è proprio su queste carte che il partito di sinistra gioca. Il leader dell’opposizione Shorten per settimane non ha rilasciato il nulla osta, spingendo al limite il governo. O meglio il suo leader. Tastando le sue mosse. Analizzando quanto fosse disposto ad esporsi. Quanto avrebbero potuto ottenere senza il plebiscito. Purtroppo, Turnbull ha giocato praticamente la stessa tattica. Non si è smosso dalle decisioni del partito, nonostante andassero contro le proprie convinzioni. Il governo ha il coltello dalla parte del manico: niente plebiscito, niente voto in parlamento. Niente voto in parlamento, niente matrimoni gay. Semplice come bere un bicchier d’acqua. L’opposizione non può far altro che acconsentire al dispendioso spreco di soldi quale è il plebiscito. Non può far altro che mettere da parte l’orgoglio, fare dei compromessi e guardare il quadro più generale: dopo il plebiscito si andrà al voto, e ci saranno molte più possibilità di vincere questa campagna.
Certo, se tutti mettessero da parte l’egoismo di cui la politica è intrinseca, si otterrebbero risultati migliori, più velocemente, e senza svuotare le casse dello stato. Come ci ricorda il deputato indipendente australiano Nick Xenophon, “Siamo eletti dai votanti per prendere decisioni. E siamo ben pagati, molto ben pagati per prendere quelle decisioni.”. In sostanza lasciamo ad ognuno il proprio lavoro. La politica è un gioco affascinante, fatto di trucchetti e false coalizioni. È un gioco in cui vince il più astuto. Eppure a volte bisognerebbe accatastare da un lato tutto questo e concentrarsi sul vero significato di fare politica. L’amministrazione dello stato. La direzione della vita pubblica. Quand’è che ha preso quest’altra direzione? Quand’è che è diventata ripicca personale?
Ginevra Galliano (4B) – corrispondente dall’Australia