La recente partecipazione alla XXII edizione del Certamen Ovidianum ha fatto nascere una riflessione interessante, che merita un approfondimento.
Haec tua Penelope lento tibi mittit, Ulixe, Nil mihi rescribas attinet: ipse veni! Così inizia la prima epistola delle Heroides, una lettera che Ovidio immagina essere mandata da Penelope all’amato Ulisse, lontano da anni. In questo primo distico elegiaco emerge un tema fondamentale della produzione ovidiana, di grande importanza per comprendere il panorama culturale dell’intera poesia elegiaca romana: l’uomo è lentus, la donna è dinamica. La traduzione, infatti, non lascia dubbi: “queste parole le manda la tua Penelope all’uomo lento, Ulisse, non mi rispondere nulla: vieni tu stesso!”
La donna esorta con la lettera il marito a muoversi, non vuole una risposta a parole, ma con i fatti. L’uomo è lentus, dunque. E non semplicemente lento, ma anche pigro, indolente: un freno all’amore attivo di Penelope. Ulisse è poi il lento per eccellenza, rimane lontano da Itaca per vent’anni. Indugia tra piaceri divini, quando non fugge da pericoli mortali.
L’amore dinamico porta, talvolta, le “eroine” dell’opera alla pazzia, si muovono di continuo, spasmodicamente, incapaci di essere indolenti come i mariti lontani, pigri e lenti. La frenesia tipica è quella di Arianna, che vaga sull’isola piangendo il il nome di Teseo ormai partito, o di Laodamia che impazzisce come se il “pampineo scettro di Bacco l’avesse toccata” dopo la partenza dello sventurato Protesilao, primo a morire dopo essere sbarcato a Troia.
Ovidio s’inserisce nel mito e nell’epica. Non aggiunge alla storia tradizionale nulla, ma si ritaglia uno spazio in cui scrivere, da riempire con l’introspezione dell’eroina. Non modifica luoghi e personaggi della storia, ma agisce su quel mondo immensamente più vasto che è l’interiorità delle protagoniste, tormentate dall’amore irresistibile, non corrisposto e lontano. La dinamicità femminile è la forza e la rovina dell’eroina stessa.
La conclusione, sovente naturale, di questa forza vitale e di questa energia è il suicidio, o meglio la sua anticipazione. Nel momento in cui Elissa la luminosa (la meglio conosciuta Didone), per esempio scrive la lettera ad Enea, non sa ancora che si toglierà la vita, ma comincia a percepirlo. Noi, però, sappiamo che, per il dolore devastante, si trafisse con la spada che il troiano le aveva donato.
Sembra che Ovidio voglia intendere che se l’agitazione dell’animo, dopo l’innamoramento che fulmina, non viene adeguatamente coltivata, diventa nociva, si perverte fino all’esasperazione e alla follia.
E l’uomo? E’ inconsapevole o noncurante; a volte impossibilitato a ricambiare l’amore smodato, come nel caso della lucente Fedra, che si invaghisce terribilmente del figliastro, Ippolito. La potenza dinamica ed energica che Ovidio concede all’amore non sembra conoscere barriere e pudore, e il caso di Fedra poi eccederà nello scabroso, con lei che, risentita del rifiuto, accuserà Ippolito di averla violentata e si toglierà la vita.
A volte la vendetta delle eroine è terribile, perché il sentimento represso, esacerbato, tramuta la dinamicità in violenza verso se stessi e, in certi casi, verso gli amanti infedeli o reticenti. Ma forse più umano della crudele e tragica vendetta è il pianto, espressione autentica di dolore, che accompagna l’eroina nella sua sofferenza.
Si legga ancora Quascumque adspicies, lacrimae fecere lituras (I segni che vedi sono state le lacrime a farli), il verso in cui protagonista è Briseide, la disperata amante di Achille che la ignora. In questo esametro emerge il pianto continuo di chi soffre d’amore. Non dura un istante, ironicamente anche questo è lento, restio ad abbandonarla, aggrappato alla sofferenza che non sembra avere fine. Al contrario dell’eroe acheo che, invece, non l’ama e la cede ad Agamennone.
La potenza delle parole manca di certo il cuore di Achille, ma colpisce in pieno il lettore che, senza vergogna, potrebbe bagnare lui stesso il foglio con lacrime amare.
Stefano Teppa