E’ passato qualche mese dal tristemente famoso stupro di Palermo, ma sembra proprio che ormai non sia più così “di moda” parlarne. Siamo passati ad altro. Comprensibile, certo, però anche solo per qualche minuto ripensiamoci ancora, magari per il tempo che richiede questo articolo per essere letto. Perché non dovremmo stufarci mai di parlarne, almeno fino a quando il problema non sarà definitivamente risolto.
Quale problema?
Ho 16 anni. Posso dire di non essere più bambina da un po’ di tempo, ma oggi vorrei condividere un piccolo ricordo della mia infanzia. Se c’è una cosa che mi è rimasta in mente di quando ero piccola è che mentre camminavo per la città con i miei genitori guardavo le ragazze più grandi per strada e pensavo “come sono belle e libere, anche io voglio essere così da grande”. Pensavo che diventare donna fosse qualcosa di unico e speciale e bellissimo.
Lo è, non vorrei essere fraintesa: amo essere una donna e amo la donna che sto diventando.
C’è stato però, crescendo, qualcosa che mi ha fatto amare un po’ meno essere una donna. Tutto è iniziato in terza media, quando ho iniziato a uscire la sera insieme ai miei amici. Quanta libertà! Finalmente potevo sentirmi grande, come tutte le ragazze che vedevo per strada. Non c’erano genitori o restrizioni; solo io, i miei amici e la notte.
Però, una volta finita la serata, mi arrivava regolarmente la chiamata preoccupata di mio padre: “chi ti accompagna a casa?” “come torni?”. Improvvisamente non ero più libera, come se mi fossi svegliata di colpo da un sogno. Per poter tornare a casa dopo una bella serata, dovevo trovare qualcuno che mi scortasse. Per qualche strano motivo camminare da sola non era contemplato, troppo pericoloso. Chissà perché, mi chiedevo.
È stato così che, pian piano, quello che era un obbligo di mio padre, è diventata una mia abitudine. La preoccupazione è diventata un’abitudine. Oggi questa preoccupazione è incastonata dentro di me; non se ne andrà facilmente, anzi forse non se ne andrà mai.
Ho cominciato a chiedere ai miei amici maschi di accompagnarmi, e le loro facce infastidite, e stufe di questa continua preoccupazione, hanno iniziato a farmi sentire incompresa.
Una sera mi è capitato di tornare a casa da sola. Non è successo niente per fortuna, ma il mio cuore rimbombava fortissimo nel petto, avevo le mani sudate e il respiro affannato. Paura, questo era quello che provavo, vera e propria paura. Quella che toglie il fiato e fa accelerare il passo il più possibile, come a scappare da qualcosa, ma da cosa? Da chi scappavo?
Dagli uomini. Da tutto quello che comportano. Scappavo perché gli sguardi, le occhiate e i commenti sgradevoli, che tagliano l’aria come frecce, non mi raggiungessero. Scappo ancora oggi.
Tutte le donne scappano da questa realtà opprimente, che è la cultura sessista in cui viviamo, una cultura che permette a orrori come il catcalling, le molestie, gli stupri di passare inosservati. Una società talmente retrograda da considerare di poca importanza uno stupro di gruppo, perché tanto “la carne è carne” e poi perché ai politici basta dare l’appellativo di “animali” ai colpevoli per risolvere il problema, per mettersi in buona luce. Una società dove si manca di rispetto alla vittima, che viene ritenuta una poco di buono, come per cercare di giustificare l’atto che è stato compiuto. Come se bastasse dire “not all men” per potersi scrollare il problema di dosso come si toglie una mosca dal piatto: con un piccolo, insignificante gesto. Ma non è così che il problema viene risolto. Non è così che io e tutte le altre donne smetteremo di avere paura. Non è così che gli uomini impareranno. Bisogna educare e non punire, prevenire invece che curare. Insegnare già ai bambini come vanno trattati gli esseri umani. Perché noi donne non siamo un oggetto, o un desiderio, una fantasia degli uomini. Noi donne non siamo altro che esseri umani e come tali meritiamo di essere trattate nello stesso modo degli uomini.
Sono stanca di vivere in questa realtà. Di sentirmi osservata quando cammino con una maglia scollata, e di sentirmi in colpa per questo, perché non è colpa mia. Non è colpa mia così come non era colpa della ragazza di Palermo per quello che le è accaduto.
Sono stanca di sentire racconti raccapriccianti di esperienze delle mie amiche, che a 16 anni hanno già subito innumerevoli molestie fisiche, verbali, e lo raccontano come si racconta un aneddoto qualunque. Come se fosse normale, un’abitudine. 16 anni. L’età in cui speravo di essere libera, invece più cresco più mi sento oppressa, senza via di uscita. “Not all men”, ma in qualche modo ogni uomo è responsabile di ciò che è successo a Palermo. Perché se quei ragazzi fossero stati educati fin da bambini al consenso e al rispetto del corpo altrui, non sarebbe accaduto ciò che è accaduto. Se la società si occupasse di questi problemi, che si trovano purtroppo alla base della nostra vita quotidiana da ormai troppo tempo, forse noi donne potremmo sentirci davvero libere.
Ho 16 anni e non voglio più avere paura.
Bianca Camoletto