Hot dog

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Ma quanto ci piace, qua in occidente, sentirci delle belle persone? Eh? Sentirci migliori degli altri. Dopo il fallimento di secoli di colonialismo, ancora non abbiamo imparato che non ci è dato il diritto di essere talmente presuntuosi da credere che la nostra cultura sia meglio delle altre? No, noi siamo i civilizzatori, lo siamo sempre stati. Educhiamo qui, convertiamo là. “Civilizziamo”. E intano distruggiamo le culture degli altri. Ma quanto siamo bravi? Così, per fare un esempio, uno dei tanti gruppi di persone che voleva portare ai popoli che vivevano nell’oscurità la propria visione illuminata del mondo, nel 2011 ha costretto il governo cinese a bandire una celebrazione con una tradizione lunga più di 600 anni, il JinhuaHutou Gou Rou Jie. Se ora vi sentite un po’ colpevoli, forse fate bene, ma altrettanto probabilmente vi sentirete fieri di aver imposto le vostre civilizzate abitudini occidentali quando saprete cosa significa. Perché, vedete, JinhuaHutou Gou Rou Jie vuol dire “Festival della carne di cane di Jinhua Hutou”. Già vi sentite meglio, eh? Perché è proprio quello che sembra. È (o meglio, era) una festa tradizionale che prevede il consumo della carne di cane. Probabilmente ora vi sentirete lo stomaco il subbuglio, e una vocina nella vostra testa vi dirà “che schifo, che barbari, è sbagliato” (e altre menate del genere, a seconda della vostra persona). Prima di armarvi ed invadere la Cina, però, riflettete un attimo. Il consumo di carne di cane è una tradizione che si protrae in Cina, Vietnam e Corea da migliaia di anni (tralasciando il fatto che è stata consumata anche qua fino a 50-60 anni fa nelle zone più povere). Oramai in Cina il tasso di Fidofagia è largamente diminuito, e rimane popolare solo nelle provincie meridionali del GuangDong e del GuangXi, mentre in Vietnam e Corea è ancora molto popolare. Il che fa riflettere, e mostra l’ipocrisia e l’ignoranza di molte persone. Perché ci indigniamo con la Cina, in cui è una pratica marginale, e non con i suoi vicini, recidivi perpetuatori di un presunto crimine contro le nostre candide coscienze (ed i nostri amici pelosi)? Comunque, torniamo in Cina. Perché è dalla provincia del GuangXi, e più precisamente dalla città di YuLin, che arriva la causa di tanto sdegno. So che sapete di cosa sto parlando. Il festival della carne di cane di YuLin. Ne avrete sentito parlare sicuramente, dato che da qualche anno spunta con una discreta regolarità nei notiziari, etichettato come disumana atrocità, quando si avvicina l’estate, salvo poi sparire dopo un paio di giorni. Lasciate che ve lo illustri un attimo. Ogni anno, a YuLin, si tiene una grande festa per il solstizio d’estate, che dura 10 giorni, e durante il quale vengono consumati tra i 10000 e i 15000 cani in media (per quanto possa sembrare tanto, va tenuto in conto che YuLin ha più di 6 milioni di abitanti), e le famiglie si riuniscono per festeggiare. Piccola parentesi, la celebrazione si chiama “Festival dei lychees e della carne di cane”. Perché nessuno combatte per i diritti dei lychees? Quei barbari li mettono addirittura per primi! Cos’è questa ipocrisia? Perché i cani hanno più diritti dei lychees? Non mi sembra giusto discriminarli solo perché somigliano, in aspetto e consistenza, a degli occhi? In ogni caso, fritta, bollita, saltata o marinata, la carne di cane è ampiamente consumata e apprezzata dai cinesi di YuLin. E cosa c’è di così male, dico io? Posso capire (in questo caso) i vegani. Loro sarebbero gli unici che potrebbero (l’uso del condizionale è voluto) lamentarsi senza suonare ipocriti. Ma tutti gli altri? Voi che di tanto in tanto vi concedete il piacere di una bistecca, un salsiccia, una costoletta, una braciola di maiale, e chi più ne ha più ne metta, che diritto pensate di avere? Solo perché ha gli occhi dolci, e magari quello che avevate da bambini è finito sotto una macchina, alla fine è uno stramaledetto pezzo di carne. E ad essere sinceri anche il sapore non è male (si, parlo per esperienza). Voi ipocriti animalisti e attivisti estremisti da quattro soldi, ragionateci un attimo. Vi offro un po’ di contesto: la Cina è stata un paese principalmente agricolo per migliaia di anni, e la maggior parte delle persone ha vissuto sull’orlo della povertà per moltissimo tempo (esempio più recente: la politica del “Grande balzo in avanti” di fine anni ’50 ha causato una terribile carestia che ha provocato tra i 20 e i 43 milioni di morti), non pensate che forse queste persone avessero il diritto di mangiare quello che potevano per mantenersi in vita? Ma del resto molti degli attivisti che si battono attivamente per questa stupida causa (perché è stupida) sono in situazioni economiche agiate (per usare un gentile eufemismo). Come ad esempio una delle attiviste cinesi intervistate dal gruppo di giornalismo indipendente VICE, la quale ha affermato con fierezza che, essendo di famiglia ricca, si è potuta permettere di spendere l’equivalente di circa 9000 Euro per liberare un carico di cani diretti al mercato. Mercato le cui foto sono girate su internet per un certo periodo, solitamente accompagnate da commenti che gridavano allo scandalo e al massacro. Su queste fotografie è anche necessario riflettere, perché una volta superata la sensazione strana che dà la vista di un cane morto pelato come una palla da biliardo, ci si accorge che non presenta nulla di diverso dalle bistecche sul banco del vostro macellaio di fiducia, fatte a fette per l’unica ragione che metterci una mucca intera è tutto fuorché pratico. L’altra intervista interessante invece era quella di una donna che, al contrario dell’altra, allevava e vendeva cani per la festa, la quale diceva: “Mio marito è morto, io devo prendermi cura dei miei figli, dei miei genitori e dei genitori di mio marito, cosa dovrei fare, prostituirmi?”. Queste due facce della complicata medaglia culturale di YuLin ci portano ad un altro argomento che rende questo festival controverso agli occhi della poco informata opinione pubblica. Il commercio dei cani. Per quanto molti sostengano l’illegalità di tale attività, la legislazione cinese non si esprime a riguardo, e se ne ha ancora un’ulteriore conferma dall’intervista all’attivista, la quale sostiene proprio la tesi dell’illegalità del commercio di cani a Yulin e, una volta invitata a produrre delle prove, risponde candidamente “Non ne abbiamo”. Priva di controversie non è neanche la situazione della provenienza degli animali. Principalmente sono randagi o cani di allevamento, ma alcuni sostengono anche l’esistenza di una sostanziosa percentuale di cani rubati alle famiglie che ne possiedono uno. Per quanto questa ipotesi non sia passabile di esclusione diretta, ed è anzi probabile che qualche cane sia stato preso in prestito senza garanzia di restituzione, questi saranno una piccola parte, visto e considerato che in Cina la maggior parte dei cani da compagnia è di taglia piccola, e non ne varrebbe obbiettivamente la pena. I cinesi sono persone pragmatiche, c’è troppa poca carne in un cane piccolo. Meglio un vero cane da tavola, no? E a sentire i cinesi con cui ho parlato durante i miei soggiorni, loro operano volontariamente una distinzione tra cani da compagnia e cani da tavola, e non sembrano favorevoli a mischiare i due gruppi. Ora, chiaramente si corre il rischio, come con la macellazione di un qualsiasi animale, di arrecare un dolore non necessario, e questo naturalmente non è giusto e va evitato, o di procurare rischi per la salute del consumatore, e difatti il governo cinese si è impegnato negli ultimi anni a fornire una supervisione ed una regolamentazione maggiore della situazione, sicuramente necessaria.

Tutto sommato, come può vedere chi non si rifiuta di farlo, la situazione non è un ”festival della barbarie” (come lo hanno definito in modo molto imparziale, rispettoso e professionale i media del nostro paese), ma l’espressione di una cultura diversa dalla nostra, lontana, e che non condivide i nostri pregiudizi e i nostri limiti auto imposti, dimenticandoci, nella nostra indignazione, che nomignoli come ”vicentini magnagati”, non sono certo il frutto di pura invenzione, e anche noi abbiamo avuto l’abitudine di consumare ciò che ora consideriamo sacro (e a proposito, argomento trito e ritrito, ma adatto alla situazione insensata, con questo metro di giudizio, che dovrebbero dire gli indiani del resto del mondo?). Non abbiamo quindi nessun diritto di imporci con prepotenza e giudicare, sprezzanti e senza le informazioni necessarie, le tradizioni di un altro paese.

Avvicinandoci al solstizio d’estate, è comunque molto probabile che si risentiranno echeggiare nell’etere (per non parlare di quel gigantesco campo di battaglia che è il regno di internet) le piagnucolose voci indignate degli attivisti per un giorno (o meglio, dieci giorni), che urleranno, ad una platea di gente a cui tutto sommato non frega nulla, il loro sdegno, il loro disprezzo e la loro bontà d’animo, fino a che non sentiranno appagato il loro egoistico bisogno di potersi dire “sono una bella persona!”, mentendosi apertamente.

Davide Costa 5H

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