Cosa succederebbe se avessimo la possibilità di fare qualunque cosa? Se le leggi perdessero il loro valore, se non ci fossero conseguenze, fin dove si spingerebbe l’essere umano? Il quesito non è per nulla nuovo, sebbene rimanga attuale: già nella filosofia greca troviamo i concetti di legge naturale e di legge positiva, ad esempio in Ippia e Antifonte alla fine del V secolo a.C., ma che vennero poi ripresi anche da Hobbes duemila anni più tardi. Anche la serie cinematografica La notte del giudizio, in inglese The Purge, vuole rispondere proprio a questa domanda, mostrandoci cosa succederebbe se, per dodici ore, fosse permessa qualunque azione normalmente illegale e non ci fossero ripercussioni.
L’artista serba Marina Abramović, nella sua “performance” Rhythm 0, della serie Rhythms degli anni 1973-74, ricercò una risposta reale, e non meramente ipotetica, alla questione. Il tutto si svolse in una stanza della Galleria Studio Morra a Napoli, nella quale Abramović allestì su un tavolo settantadue oggetti di varia natura, come un dolce, un giornale, fiori, miele, vernice di tre colori diversi, una penna, una rosa, ma anche una benda, un coltello, alcuni proiettili, una pistola.
Le istruzioni, appoggiate sul tavolo insieme agli oggetti, erano molto semplici:
- “Ci sono 72 oggetti sul tavolo che possono essere usati su di me nel modo in cui desiderate”;
- “Io sono l’oggetto”;
- “Mi assumo completamente la responsabilità di quello che faccio”;
- “Durata: 6 ore (dalle 20:00 alle 2:00)”.
Abramović offrì per sei ore il suo corpo come oggetto alla mercé del pubblico, che avrebbe potuto fare di lei qualunque cosa avesse voluto, senza limitazioni di alcun tipo.
All’artista inizialmente vennero fatte carezze, dati baci, offerti fiori, e venne trattata con gentilezza, ma, con lo scorrere del tempo, i presenti si resero conto che lei avrebbe accettato di subire qualunque cosa, e tolsero il piede dal freno. Passate alcune ore, infatti, l’artista si ritrovò con spine di rosa nella pelle, tagli, vestiti strappati e sangue succhiato dalle ferite aperte. Denudata, oltre che degli abiti, anche della dignità, Abramović continuò a rimanere immobile, con le lacrime agli occhi, in attesa della successiva dimostrazione della grottesca violenza umana. Non dovette aspettare a lungo: la pistola che era sul tavolo insieme agli altri oggetti le fu messa, carica, tra le mani, con il dito sul grilletto e puntata su se stessa. Per impedire che accadesse il peggio, il gallerista intervenne sottraendola e gettandola dalla finestra.
Quando le sei ore furono trascorse, e la performance dichiarata conclusa, Abramović smise di essere un oggetto e tornò persona. Si mosse e fece per avvicinarsi al pubblico che, temendo le conseguenze delle proprie azioni, fuggì, dimostrando che l’unico vincolo che l’essere umano si impone è quello dettato dalla legge positiva, e che quando questa viene a mancare riemerge la brutalità che fino a quel momento era stata soppressa e arginata.
Le conseguenze della performance lasciarono un segno tangibile, oltre che nel cuore, anche sul corpo dell’artista. “Ricordo di essere tornata in albergo, di essermi guardata allo specchio e di aver trovato una grande ciocca di capelli bianchi,” rivela infatti in un’intervista. Ciò dimostra quanto l’essere umano sia incuriosito e attratto dalla violenza, e che in assenza di limiti sarebbe in grado, per soddisfare questa sua curiosità, di accantonare ogni forma di empatia.
Rebecca Tugui