Primo Levi pubblica “I sommersi e i salvati” nell’aprile 1986, ventitré anni dopo l’uscita de “La tregua” e ben quarant’anni dopo quella de “Se questo è un uomo”. È estremamente singolare che un autore torni a trattare temi talmente personali e dolorosi dopo così tanto tempo. Pertanto si deduce che il mondo dei Lager non l’aveva mai abbandonato, che non era riuscito a liberarsi dei ricordi strazianti di quell’anno passato a Monowitz, che quell’anno l’aveva marcato per sempre.
“I sommersi e i salvati” non è il racconto di una storia o un’autobiografia. È un saggio che analizza la realtà dei campi di concentramento e tratta diversi concetti di quel mondo: la differenziazione sottile ma determinante dei prigionieri, la vergogna dei carnefici, le violenze inutili e gratuite degli oppressori o l’impossibilità di concepire il suicidio all’interno del campo. Ogni capitolo si occupa di un aspetto specifico, analizzando scrupolosamente i comportamenti dei tormentati e dei tormentatori, non assumendo il ruolo della vittima ma del testimone diretto, che vuole raccontare le atrocità subite, viste e vissute. L’analisi di Levi è lucida e attenta, frutto di anni di riflessione e di una maturità conseguita con sofferenza, anche attraverso la divulgazione della sua storia.
Il titolo si riferisce alle due categorie di prigionieri presenti nei campi: i “salvati” sono i sopravvissuti, quelli scampati alla morte grazie a svariati motivi: dall’egoismo allo spionaggio, da servizi resi al nemico o per pura fortuna, come è stato il caso di Levi. I “sommersi”, invece, sono tutti quelli che non ce l’hanno fatta, che si sono inevitabilmente piegati alla crudeltà e alla lucida pazzia di un regime. Che non hanno resistito fisicamente e mentalmente al denutrimento, alle torture, alle umiliazioni, alla fatica. Ma possono davvero definirsi salvati quelli sopravvissuti? I loro tormenti successivi, i loro rimorsi, i loro irrazionali sensi di colpa e il perpetuo domandarsi di come mai loro erano ancora vivi sopraffarono molti superstiti. Ed è questa la vittoria dei nazisti. Fra tutti quegli uomini liberati non c’è uno che possa definirsi salvato. Sono tutti condannati ad un’esistenza burrascosa, devastante, inumana. E per cosa? Per essere appartenuti ad una religione diversa da quella cristiana, per aver difeso i propri ideali, per aver deficienze fisiche incurabili? Perché i deportati non erano solo ebrei ma anche prigionieri politici, disabili, omosessuali. Tutti coloro scomodi al Terzo Reich o non classificabili come ariani. Non c’è spiegazione plausibile e razionale che giustifichi una tale abominia.
Ho detto che non aver nessun salvato è stata la vittoria nazista, ma non è la maggiore. Hitler trionferà davvero quando tutto ciò che è stato commesso sarà dimenticato, sarà ridimensionato e sarà valutato superficialmente come semplice evento storico. Cosa accadrà quando l’ultimo superstite morirà? Quando l’ultima prova vivente di quell’esperienza svanirà? Resteranno solo le loro testimonianze, i loro racconti. Ma già ora sembrano così remote, così lontane dalla nostra realtà. Dobbiamo impedire che accada, che quei fatti diventino solo delle storielle già dette e sentite mille volte e quindi inevitabilmente trascurate e sminuite. Siamo i custodi della sofferenza di quelle persone, delle atrocità commesse da quel dittatore. Dobbiamo ricordare non perché è doveroso ma perché è necessario, per far sì che non si ripeta niente del genere.
Era questa la preoccupazione maggiore di Levi, che questi avvenimenti venissero cacciati nell’oblio, dimenticati dalle future generazioni più inclini ad accettare la verità mutevole delle mode piuttosto che le verità storiche, le certezze, i valori, gli ideali.
Quindi quest’opera deve essere letta come un’essenziale testimonianza della storia dell’umanità, per ricordare a tutti come un uomo sia riuscito a trasmettere i suoi perversi ideali a un intero popolo e come, attraverso una regia ignobile e un’organizzazione terribilmente perfetta, un altro popolo sia stato quasi sterminato.
Brando Ceratto (4A)