Il calcio che non c’è più

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Nell’Italia che usciva dilaniata dal dopoguerra, il calcio era una grande fonte di svago, forse per cercare di dimenticare l’indimenticabile o forse per deviare i propri pensieri in quei novanta minuti di brividi ed emozioni.
Se da una parte Coppi e Bartali infiammavano i cuori di tutti gli italiani appassionati di ciclismo, il pallone faceva la sua parte con gli stadi che si riempivano di donne e bambini: una partita era un divertimento per distrarsi da un’Italia operaia che provava ad andare avanti.

Chi non seguiva la propria squadra dal vivo, aveva l’orecchio incollato alla radiolina. Proprio le stazioni radio esortavano la gente ad andare allo stadio trasmettendo solo il secondo tempo, alimentando così la passione dei tifosi senza scopo di lucro alcuno. Con la nascita delle pay-tv negli anni ‘90 gli stadi sono andati sempre più svuotandosi, rasentando la desertificazione: sinonimo di tristezza e malinconia per i tempi passati.

Era un Calcio in cui i valori venivano prima dei soldi. L’importanza della maglia, il feeling coi tifosi, erano qualcosa che non poteva comprare alcuno sceicco o petroliere moderno. Proprio con l’avvento dei magnati, il calcio ha subìto la globalizzazione. Le rose delle squadre si sono riempite di stranieri sopravvalutati e strapagati, ignorando i rispettivi vivai che, negli anni ’60, erano la maggiore fonte di creazione dei futuri campioni.
Era uno Sport dove i valori venivano trasmessi dal nonno al nipote, dove si giocava soprattutto per divertirsi e dove i grandi campioni, ogni domenica, avevano il compito di rimettersi in discussione senza potersi permettere di chiedere un contratto nuovo ad ogni gol.

Forse si dovrebbe guardare il bicchiere mezzo pieno anziché essere melanconici. In fin dei conti, il gioco è sempre lo stesso, ma bisogna avere la consapevolezza che quel calcio non tornerà più.

 Giulio Comellini (4E)

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