Non voglio chiedervi di non giudicarmi, o dipingermi come un innocente, ma desidero solo l’occasione di spiegare le cause per cui mi trovo, ora, nell’ufficio del rettore, per far sì ch’anche voi possiate capire le mie ragioni e, se non potete perdonarmi, siate almeno liberi di compatirmi. Null’altro domando, in fondo, ch’un poco d’attenzione. Un tempo, qualche mese addietro, fu destino che fossi concentrato su di un fruttuoso ed interessante studio della filosofia, dal quale traevo, oltre che un immenso diletto, un’inesauribile fonte d’ispirazione per le mie personali riflessioni. Nulla poteva distrarmi dalla lettura, e per niente al mondo vi avrei rinunciato. Tuttavia, accadde un giorno che, per un motivo o per un altro, fui distolto dai miei impegni intellettuali: una commissione urgente, la morte del lontano zio di un amico, variegate incombenze burocratiche mi impedirono, per qualche giorno, di dedicarmi agli studi. La situazione non si protrasse a lungo, ma il caso volle che proprio quando la catena di strane e improbabili coincidenze fastidiose era prossima a finire, mi capitò tra capo e collo un compito di filosofia. Un compito, questo, non spiacevole, no di certo, ma che, preparato solo il giorno prima, poteva senza dubbio risultare una seccatura. Feci del mio meglio per rimediare, in quell’ultimo giorno disponibile, alla mia negligenza, ma non riuscii a ottenere che un’idea sconnessa e confusa del pensiero del grande G.W.F.Hegel. Oltre al disappunto per la mia insipienza, ero pervaso da una crescente angoscia per il risultato del test (esperienza per me del tutto nuova). “Che ne sarà del mio inappuntabile percorso formativo?” mi chiedevo. “I compagni di certo sfrutteranno l’occasione per canzonarmi senza pietà” ripetevo tra me e me. Assillato da tali pensieri, la sera prima del fatidico compito andai a letto senza cena, sperando che alla lunga la stanchezza avrebbe prevalso sulla tensione. Avevo, almeno in parte, ragione. In effetti, dopo un’ora di vani tentativi, riuscii a convincere Morfeo ad abbracciarmi. Caddi tuttavia in un sonno travagliato, popolato da bizzarre ed inquietanti visioni. Sognai d’esser tormentato da un odioso folletto dall’accento tedesco, una miniatura di Hegel! Al mio risveglio non detti troppo peso ai deliri notturni, terrorizzato com’ero dall’imminente verifica. “Ecco, ci siamo” pensai, guardando il foglio bianco che dovevo riempire, partendo da un paio di righe stampate in nero di cui, data la mia (giustificabile) ignoranza, non riuscivo a decifrare il senso. Era proprio come avevo temuto. Sconfortato, guardavo senza un perché la lavagna nera come la pece che costituiva l’arredamento principale della classe. Ancora mi chiedevo: “Che ne sarà della mia media?” “Che penserà il professore?” e sprofondavo il viso tra le braccia conserte e l’umore tra le melme viscide dell’autocommiserazione. Provai ancora a guardare il foglio. Non avevo assolutamente idea di come riempire quelle quindici righe, e il mio terrore cresceva. Il punto era che un buon terzo dei termini di cui era composta la domanda non mi suscitava che un ricordo vago e indefinito, che odorava di quel puzzo che hanno i ricordi quando paiono in parte inventati. “Massì, la Fenomenologia è… No, forse no…” “L’aufhebung, già! O… magari… Era la dialettica?” ” Spirito della ragione, ecco! O era ragione dello spirito?”. Che ripugnante minestra mentale! Non avrei potuto essere più confuso su quegli argomenti, e di certo l’angoscia che ad ogni respiro mi montava dentro non aiutava un’analisi critica e razionale del problema. Proprio nel bel mezzo di queste vane e contorte elucubrazioni, tuttavia, mi balzò in mente un’idea che solo la stanchezza e la criticità del momento possono giustificare. “Ah, se venisse qui Hegel, ad aiutarmi, se venisse lui in persona…” pensai chiudendo gli occhi e serrando i pugni, lasciando per un attimo che tale folle e bizzarra fantasia s’impadronisse del mio animo (va detto, a mia discolpa, che davvero non si trattò che di un attimo). Non ho idea della strana ragione per la quale tale pensiero mi diede un vago ma deciso senso di sollievo. Non ho idea affatto, in realtà, di come funzioni alcuno dei perversi meccanismi della mente umana. Fatto sta, comunque, che in quell’attimo in cui chiusi gli occhi immaginando di sedere non solo, ma accanto a Hegel, provai un instante di libertà dall’oppressione dell’angoscia, la quale tuttavia tornò a soffocarmi nel tempo d’un respiro. Non crederete, miei cari, cosa colpì i miei sensi quando, recuperato un briciolo di raziocinio, riaprii gli occhi. Non lo credetti nemmeno io, in realtà, in un primo momento.
Un saccente filosofo tedesco, alto quindici centimetri, in vesti eleganti, stava in piedi sul tavolo, fissandomi con sguardo inquisitorio. “Avanti, non mi fissi a bocca aperta, giovanotto, non sta bene” disse la cosa con una voce acutissima, forse dovuta alla minuscola taglia. Non riuscii a muovere un muscolo, sconvolto com’ero. “Andiamo, signorino, non sia rude!” Strillò questa volta l’inquietante esserino. Riavutomi un poco dal mio stordimento, mi guardai attorno preoccupato: nessuno dei compagni sembrava udire le grida del demonietto. Sempre più stupefatto, mi voltai verso l’insegnante, che mi mandò di rimando un mezzo sorriso, proprio come se non potesse vedere il puffo-idealista che ora camminava avanti e indietro sul mio banco. Non potete immaginare il mio stato d’animo: il terrore del test si mescolava nella mia mente con un devastante dubbio sulla mia sanità mentale creando un effetto che definirei sgradevole. “Suvvia, amico, amico, cos’è quella faccia sconvolta?” Mi chiese l’esserino. Esitai, paralizzato. Era giusto dare risposta all’evidente figlio d’una turba psichica? Lanciai nuovamente uno sguardo all’insegnante e l’angoscia per la verifica nuovamente ricominciò a stringere intorno al collo. Ancora, presi a tremare e a sudare freddo. La situazione era insostenibile, troppo era il peso che mi gravava sul cuore. Fu un attimo: decisi di rimandare ogni domanda sulla mia salute mentale alla fine del compito.
“Mi scusi, egregio” sussurrai “è che non ho fatto un buon sonno”. “Oh, mio caro, finalmente mi risponde! Che gioia!” Strillò il bizzarro frutto del mio subconscio, con un timbro acutissimo e un accento teutonico che resero la frase quasi incomprensibile. “Maestro, mi serve un aiuto” provai a dire. “Tutto quello che vuole e che posso, signorino”. “Ecco, vede, non riesco a capire questa domanda. Potrebbe forse lei, ch’è il diretto interessato, illustrarmela?” “Ma lo farò con piacere, giovanotto!”. Fu così che, non scandalizzatevi, iniziai a scrivere sotto dettatura quello che il mini-tedesco squittiva. “Dunque, vediamo un po’, la fenomenologia…” e cominciai a mettere tutto per iscritto con piglio frenetico “Rallenti, maestro! Non riesco a seguirla!” “Domando venia, signorino… Ecco, dicevamo l’astuzia della ragione…”. Non stupirà il lettore sapere che il foglio bianco si riempì in men che non si dica di frasi la cui prosa ricca e fluida era degna dei grandi La Vergata-Trabattoni. “…del già citato spirito della ragione. Ecco, è tutto.” “…della ragione, punto.” Dissi, e lasciai cadere la penna, stremato. “Grazie, maestro” sussurrai. Ero soddisfatto, terribilmente. Una carica di furiosa adrenalina risaliva la mia spina dorsale al pensiero dell’angoscia sconfitta. Trassi un respiro profondo. “E mi dica, signorino, lei che ne pensa del mio pensiero?” Sospirando soddisfatto, mi appoggiai allo schienale e allungai le gambe. Ce l’avevo fatta, anche stavolta. Il compito era perfetto. “Che dire, mio prezioso amico, non ho un giudizio certo sul vostro pensiero” sibilai al filosofo. “Non ha un’idea, dice?”. Mi guardò con un’espressione strana, come se ciò che avevo detto gli fosse inconcepibile, e vagamente lo turbasse. “Ecco, è che non ho un’idea molto strutturata del suo sistema… In realtà, a ben pensarci, però, avrei qualcosa da ridire sulla teoria dello Stato”
-“Prego?”
-“Beh, ecco, lei è un uomo (o un folletto?) di una certa età, e certo saprà che…”
-“D’una certa età? Io?!?” strillò ferito l’esseruncolo.
-“No, mi scusi quello che intendevo è che…” temevo la sua reazione, ora “…può essere travisata, ecco, diciamo, fraintesa.”
-“Come? Chi potrebbe? Che blatera, giovanotto?”
-“Beh, maestro, non fraintenda a sua volta… Intendo dire che lei fu interpretato erroneamente”
-“Ma a chi allude, le chiedo?” I toni erano bruschi, e non sapevo che fare per non offenderlo.
-“Beh, tanti filosofi, politici, e persone peggiori ancora”. Il folletto era furioso. Urlò, saltando con rabbia isterica.
-“E’ questo che riesce a dirmi, ragazzino? Dopo il mio pronto e insperato aiuto, è questa la riconoscenza che mi spetta? Di tutto il mio sistema filosofico, di decenni di alacre lavoro, non ha colto che i fraintendimenti di altri? E’ questo il rispetto per il più grande pensatore del suo secolo?” Strillava e si contorceva, pazzo di furore.
– “Maestro, ma io…”provai a balbettare.
Ma il nanetto era già sparito e, calatosi giù dalla gamba del banco correva a minuscole, ridicole falcate verso la cattedra. “La farò pentire, giovanotto, glielo giuro!” ebbe il tempo di gridare mentre si arrampicava su per la borsa dell’insegnante. “La rovinerò, signorino!”. Con queste stridule parole di vendetta, si tuffò tra i risvolti della sacca di cuoio. Stetti a fissare la borsa per qualche secondo, poi, non so dire perché, mi scossi e di nuovo fissai la mia verifica. Vedevo la mia grafia, non bella ma chiara. Rilessi la mia risposta: era magnifica. Un’ondata di soddisfazione e sollievo mi percorse le membra. D’un tratto, dimenticavo tutte le paure delle ultime ore. Mi lasciai andare ad un sorriso: ce l’avevo fatta. Come risorto a nuova vita, mi alzai e, baldanzoso, mi diressi verso la cattedra. Posata la verifica, tornai al mio posto godendomi quell’onda di soddisfazione che finalmente affogava l’ansia e la stanchezza. La verità è che ero felice, talmente felice e sollevato che non potei che fingere di dimenticarmi dell’allucinata vicenda che mi aveva permesso di fare un così bel compito. Pare assurdo, ma come d’improvviso avevo deciso di parlare con il folletto, così rapidamente avevo inconsciamente stabilito di dimenticarmene.
Passò qualche giorno, di certo fra i più dilettevoli dell’intera primavera: l’aria tiepida e la luce splendente sembravano la celebrazione climatica della mia ritrovata serenità. Nella calma più assoluta, attendevo il risultato del test, trascorrendo le giornate tra lo studio e le passeggiate. Assorto com’ero nel mio sollazzo, non indugiai più sul bizzarrissimo episodio del folletto. L’avvenire non mi sarebbe potuto apparire più roseo; la certezza , poi, che l’espediente con cui avevo rimediato alla mia ignoranza non sarebbe mai stato scoperto, mi elettrizzava e rassicurava molto. Davvero non so descrivere quel misto di sicurezza e superbia suscitato dal ripensare al mio inscoperto trucchetto (l’evocazione, INVOLONTARIA, del nano-filosofo). Stranamente, in verità, mi ero convinto che tale aiuto allucinogeno avesse qualcosa di irregolare e inquietante; provai a informarmi, ma non trovai nessun emendamento, nei vari codici scolastici, che facesse in qualche modo riferimento a piccoli fantasmi di pensatori defunti. Il senso di lontana colpevolezza, tuttavia, non era stato del tutto vinto. Non me ne dolevo, in realtà: tale pensiero alimentava quell’incontenibile energia che mi derivava dalla certezza di averla fatta franca. Quel moto dell’animo è ben strano: una miscela di sensazione di potenza e brivido di pericolo scampato. Comunque sia, dicevo, passavo le mie giornate nel più lieto dei modi, attendendo l’esito del test abitato dalle emozioni che v’ho descritto. Non dovetti attendere molto: una settimana dopo lo svolgimento del compito, la professoressa annunciò con orgoglio di aver ultimato la correzione. Ero seduto al mio banco, come al solito, e non provai nemmeno a fingere di non essere felice per la notizia. Finalmente! Ero impaziente: sapevo che sarebbe stato un successo. Fremevo al punto che presi a battere ritmicamente in piede destro e per poco non cominciai a fischiettare un’allegra sinfonia. Fu allora, al culmine del mio trionfo, che la giustizia divina (o quella delle allucinazioni) riscattò il proprio credito. Mentre la professoressa si chinava per estrarre il plico di verifiche corrette, vidi qualcosa che mi sconvolse nel profondo. Il malefico folletto-Hegel, questa volta in un look molto trasandato, faceva capolino dalla sacca di cuoio dell’insegnante. Ero terrorizzato, peggio, paralizzato dalla paura. L’esserino, spaventoso, rivolgeva verso di me uno sguardo folle e mostruoso: gli occhi erano innaturalmente arrossati, la minuscola bocca tesa in una smorfia di belva feroce. Diventai bianco come un lenzuolo, credo. La professoressa iniziò ad annunciare l’esito del compito : “Abate, sei e mezzo…”. Non riuscivo a muovere un muscolo. D’improvviso il senso di colpevolezza che prima avevo sopportato e quasi amato cominciò a gravare come un macigno sul mio petto. “…Carelli, cinque più…”. Come, come avevo potuto pensare di farla franca?! Il folletto avrebbe spiattellato tutto alla prof rivelando il mio imbroglio! Povero me! Il senso di colpevolezza ora era unito al terrore. “…Cianconi, otto…”. Sentivo il cuore battere all’impazzata, l’angoscia montare e montare. Ero finito! Scoperto, smascherato, condannato! E dire che lo sapevo che il folletto aveva giurato di vendicarsi! Ma io no, stolto, non avevo voluto dargli ascolto. Già vedevo l’espressione della prof, disgustata e stupefatta. Il terrore mi pervadeva, una sensazione insopportabile. “…Desian, quattro…” . Vidi il folletto saltellare sulla spalla dell’insegnante. Vidi, o così mi parve, un luccichio di rimprovero negli occhi di questa. Ecco, aveva capito. L’angoscia ora abitava ogni fibra del mio corpo. Il cuore non batteva, letteralmente, saltava impazzito nel petto. Finito, ero finito. Che modo stupido di farsi beccare! “…Ermini, due più…”.”Ecco, ci siamo”- pensai- “Il prossimo sono io”. Il terrore aumentava, con la sensazione di essere inevitabilmente condannato. L’ansia crebbe ancora, tanto che cominciai a tremare. La prof aveva capito, ne ero certo. Sudavo freddo. Ero pervaso dall’angoscia. Avevo una paura folle, irreale. Tremavo ora ancora più forte. Non potevo più resistere: il terrore era intollerabile. Non potevo sopportarlo un secondo di più. La prof aprì la bocca per parlare.
“Sì, è vero, ho imbrogliato!”- gridai con tutto il fiato che avevo in corpo, alzandomi in piedi- “E’ vero, mi ha aiutato il folletto di Hegel!” Le mie strilla riecheggiavano per tutta l’aula ” Io nemmeno volevo che comparisse, quel puffo sapientone! E’ uno schifoso esseruncolo!”. Urlavo fortissimo, ero fuori di me. “E’ lui che ha voluto suggerirmi! E’ stato lui! Non io! Dovete credermi! E’ tutta colpa del demone di Hegel!”. La professoressa aveva uno sguardo sconvolto.
Ed ecco conclusa, signori miei, la storia del perché mi ritrovo, ora, nell’ufficio del preside, alla presenza, appunto, del rettore, e del dr. Ghele, psicologo dell’età adolescenziale.
PS: Sapete il fatto strano? Avevo preso dieci meno! Perché quel meno? Per un orrendo folletto disegnato sul retro del foglio.
Federico Fornari (5B)