Noi occidentali abbiamo la grande passione per le truculente vicende mondiali, che perlopiù non ci riguardano. Le guardiamo come un film esotico e bizzarro e, non senza una certa presunzione, ci piace raccontare la nostra opinione, che supponiamo essere qualificatissima, come se la geopolitica fosse un cineforum qualsiasi. Spesso la conclusione è quantomeno paternalistica: il nostro percorso, il nostro ethos, il nostro lungo cammino verso la consapevolezza attuale devono essere, obbligatoriamente, condivisi da tutti gli altri.
Per secoli ci siamo comportati a nostro piacimento, commettendo massacri inenarrabili e nefandezze di ogni tipo: da Cortez a Leopoldo II. Villain dello stesso film esotico che adesso commentiamo con i volti sfigurati da smorfie di disgusto per i barbari e le loro guerre tribali. Non è un j’accuse alle potenze europee per essersi comportate come tali: la brutalità nell’azione geopolitica è un fatto inevitabile. Cosa è successo nel Vecchio Continente che gli ha permesso di uscire da quella pellicola bizzarra che è la Realpolitik? Sicuramente due guerre mondiali devastanti, per l’Europa in particolare. La nascita di un Diritto Internazionale e delle Nazioni Unite è stata la soluzione: leviatani a cui ci piace concedere un po’ della nostra libertà, consci degli orrori di un’escalation militare nell’èra della guerra di massa. E gli altri? Gli altri si adattano. Abbandonate l’Africa e l’Asia, si cerca ancora di “civilizzarle”, come se loro lo volessero. Si cerca di far capire a popoli che hanno subito passivamente brutalità nostre, che se oggi si ammazzano fra vicini rischiano sanzioni severissime. L’imposizione delle Nazioni Unite è, ovviamente, ridicola e inattuabile, oltre che distante da un mondo cangiante e complesso, che non può essere codificato con un lungo regolamento di condominio. Che la Germania oggi sia parzialmente demilitarizzata e che la Gran Bretagna stia abbandonando la politica dell’intervento militare (dal modello Thatcher al modello Trump i conservatori inglesi sono cambiati tanto e non solo perché da Blair in poi hanno modelli a stelle e strisce), dopo che per secoli si sono azzannate, a un sudanese, che ha subito il peggio dell’imperialismo europeo, che importa? L’unico modello a cui questo esempio può servire è quello negativo: “l’hanno fatto per secoli loro, perché noi no?” Domanda vagamente faziosa ma non irrilevante. Perché loro no? Perché glielo abbiamo detto noi? Un giuspositivista qualunque inorridirebbe, ma sarebbe in grado di rispondere diversamente? Forse c’è un corso della Storia, un’evoluzione naturale dell’uomo che, da noi, ha portato i vantaggi innegabili del Diritto “comune”, ma non sarebbe forse da colonialisti del terzo millennio imporlo su altre genti? Paradossalmente, è proprio chi si vuole purificare dal passato imperialista che spinge per quest’opzione ultra-globalizzante. Una contraddizione abbastanza ridicola, ma non isolata. Basti pensare a chi urla, scrive e commenta che Israele è uno stato artificiale, illegittimo, perché creato a tavolino dalle potenze occidentali e da sionisti dal naso adunco nascosti negli uffici delle Nazioni Unite; però, quando Israele si macchia di “crimini di guerra”, invocano inorriditi lo stesso Diritto Internazionale di cui negano la validità per l’esistenza dello stato ebraico. Restando in Medio-Oriente la situazione è esemplare. Nessuno ha il coraggio di ammettere che, a noi europei, Israele serva. Non è, però, una novità che un paese giovane sia aggressivo e nazionalista. Anzi, è abbastanza normale. Di esempi storici ne abbiamo: dalla Francia Rivoluzionaria alla Germania di Bismarck. Come dobbiamo comportarci, però, di fronte a questa politica aggressiva che noi abbiamo imparato a rifiutare? Dobbiamo indignarci? Dobbiamo applaudire? Dobbiamo vestire la Kippah o la Kefiah?
Israele ci serve? Sì. Piaccia o non piaccia, la Realpolitik esiste ancora, nascosta, offuscata, mai menzionata in un discorso. Eppure esiste ed è nei nostri interessi geopolitici proteggere uno stato che, se fosse a una qualsiasi altra latitudine, condanneremmo duramente. Il fatto che – come certa propaganda sostiene – Israele sia “baluardo dell’Occidente” nelle barbare terre arabiche è, però, altrettanto falso. È sì un bastione della modernità economica, ma non è esattamente sovrapponibile a ciò che convenzionalmente chiamiamo Occidente. La forzatura è evidente. Ma basta vedere il video trasmesso dall’emittente americana ABC ebrei ultra-ortodossi che, camminando allegramente per le strade di Gerusalemme, si divertono a sputare sulle suore in pellegrinaggio. “E questi sarebbero i nostri alleati?” Potrebbe tuonare qualche cristiano conservatore, deluso da quelli che credeva essere cugini e migliori amici. Sì, certo. Un cane da guardia, animato da spirito guerriero ed armato dagli Stati Uniti, è un deterrente efficacissimo per proteggere i nostri ricchi interessi economici. Ma ad un livello più basso, non geopolitico, noi, che siamo spettatori, cosa dobbiamo fare? Dobbiamo illuderci con il Diritto Internazionale? Dobbiamo riempirci la bocca di imprecisioni circa la presunta amicizia che ci lega con Israele, oppure piangere per i palestinesi massacrati dalle bombe?
Siamo assopiti, ormai così poco abituati alla violenza su vasta scala, che qualsiasi conflitto ci sconvolge più di quanto dovrebbe. Chiusi nella nostra turris eburnea, pensandoci ormai estranei alla brutalità, forse avremmo bisogno di un reality check. La politica è dei fatti, dei vantaggi, delle promesse rotte e dei sotterfugi. La violenza è l’agenzia che muove i suoi ingranaggi. Si tratta di un poliedro vastissimo per essere comodamente teorizzato, e questo ci dà molto fastidio e quando ci presenta una sua nuova, brutale, faccia annaspiamo non sapendo come comportarci. Forse bisognerebbe prendere atto della violenza politica come verità scomoda, invece di cercare di contenerla con mezzi improbabili. Un vero Diritto Internazionale, rispettato da tutte le parti e ragionevolmente redatto, non dovrebbe essere il tappeto sotto cui nascondiamo la politica dei nostri interessi. Per ora rimane solo un mito di cui ci piace parlare, ma che siamo i primi a violare impuniti quando ci fa comodo. Uno specchietto per le allodole, teoricamente eccellente ma poco pratico sotto ogni punto di vista.
Stefano Teppa