Il piccolo regno di Orfeo

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IstanbulPartivo con la speranza di non tornare, con il desiderio di rimanere nella terra che, per qualche mese, mi aveva già ospitato circa un anno fa. L’autentica felicità che si percepiva dal mio sguardo e dal mio sorriso stampato sul volto una volta atterrati parlava chiaro: era la sublimazione dell’affetto incondizionato che provavo per un Paese che non ha mai rifiutato di raccontarsi a me, che ha sempre voluto ascoltare i miei pensieri, una terra che ispira, che entusiasma, che tende all’innovazione del futuro e che con lucidità ricorda il suo passato ogni giorno. Era come tornare ad abbracciare un caro, carissimo amico o come rincontrare la femme fatale che mi aveva fatto perdere la testa nell’adolescenza.

İstanbul sa di rakı e castagne, parla la lingua più musicale del mondo e in primavera, vestita di tulipani dai colori vivaci, lascia trasparire tutta l’essenza della sua bellezza. I pescatori del ponte di Galata lo sanno bene, per questo si preoccupano sempre di salvaguardare, per mezzo delle parole che regalano a chi si ferma a chiacchierare con loro, la sua malinconica esistenza, la sua intrinseca necessità di essere affascinante, la sua musica che inesorabilmente fa dell’umore di chi passeggia per le sue strade ciò che vuole.
Profuma d’oriente Istanbul, di chiodi di garofano e di colonia al limone, nonostante il suo aspetto sempre più occidentale. Cantano gli imām dai minareti delle sue ottocento moschee, cantano gli zingari allegri che amano sedersi sul lungomare di Eminönü a guardare la parte occidentale della città. Ballano i poveri di Tarlabaşı e balla chi si ubriaca durante il meze serale. Urlano i mercanti per propinare la loro merce ai passanti, come gridano le prostitute dei quartieri poveri. I turisti ammirano lo splendore di Sultanahmet, e i gatti e le donne di Fatih, coperte dal nero chador, osservano le dinamiche della città.
Istanbul, con il suo solito ed eloquente silenzio, ha chiesto a tutti noi di rimanere dentro di lei per amarla ancora un po’, ma altre città più ad est attendevano il nostro arrivo.

Intorno a Kars, tra i resti delle città armene, c’era ancora la neve, poco distante dalle distese fiorite di papaveri e orchidee. Spari sui parabrezza dei minibus, strade disastrate, posti di blocco militari in una scenografia che sembra quella di un film di guerra.

Alle pendici dell’Ararat che, secondo la leggenda, aveva garantito a tutte le specie animali del mondo di sopravvivere al diluvio universale, arriviamo a Doğubeyazıt. Nessun albero, nessun campo coltivato, nessuna fabbrica.

A scacciare il freddo di un inverno che a maggio ancora non lascia spazio alla primavera, la calorosa ospitalità di chi ci attendeva. Curiosità e affetto istintivo nei nostri confronti, ancora sconosciuti ai più, ma accolti come cugini venuti da lontano.

Dall’alto dell’İshak Paşa Sarayı si vede tutta la città: un disordinato insieme di case perlopiù abusive e strade impraticabili, circondato da pascoli e montagne coperte di bianco. Odori forti, che raccontano le difficoltà di una vitacastello2 agreste. Echi di spari che urlano l’esasperazione di una minoranza che esige una vita migliore. Sguardi profondi e intelligenti, sorrisi sinceri e voci squillanti sempre pronte a chiedere una fotografia in loro compagnia: sono questi i bambini di Doğubeyazıt. I loro occhi riflettono il sogno di visitare paesi lontani, mostrano le fantasie che ruotano attorno ad un microcosmo di cui sono parte e dal quale non possono allontanarsi.

Il vicinissimo Iran, da cui importano il tè, i gioielli e i cocomeri, sembra essere la loro unica alternativa. E, nonostante tutto, sono sempre pronti a ballare e a cantare sulle basi delle loro musiche tradizionali, suonate con il def e la zurnê, perché se c’è del bello nella loro condizione è proprio questo: la frenesia del capitalismo occidentale non è ancora arrivata e della disgregazione sociale tipica ormai dei paesi occidentali, forse, non ne hanno neppure mai sentito parlare.

La sera, a Doğubeyazıt, si cena tutti insieme, seduti per terra intorno a pochi piatti colmi di cibo spartito con gli altri. Si beve tè raccontandosi reciprocamente la giornata appena vissuta, si condividono i sogni, le speranze e la triste essenza della consapevolezza partorita da una realtà tanto povera quanto ingiusta come quella che vivono quotidianamente. E prima di andare a letto ancora si suona e si canta insieme, e la notte scende lenta insieme ad Orfeo, forse l’unico dio che ancora porta nel cuore quella piccola cittadina sorta sulla stessa terra in cui nacque la civiltà.

 

Stefano Castello

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