“Ma tu sei pazzo!” Chissà quante volte ci è capitato di scherzare in questo modo. Eppure, in un passato non così lontano, la pazzia portava a drastiche conseguenze, come il ricovero in manicomio. Ma che cosa erano in realtà i manicomi? E chi erano i cosiddetti matti che lì venivano “curati”? È il caso di fare un passo indietro.
Nell’antichità si credeva che le malattie mentali fossero causate da forze soprannaturali e dunque venivano trattate con rituali mistici o religiosi. Durante il Medioevo, gli squilibrati erano considerati posseduti dal demonio e venivano quindi condannati al rogo, per liberare la loro anima. Tra il ‘500 e il ‘600, iniziano ad essere considerati come minacce da allontanare dalla società. In quel periodo si crearono dunque strutture in cui rinchiudere non solo i malati mentali, ma anche poveri, vagabondi, mendicanti, nullafacenti: essi lì venivano trattati senza rispetto e con punizioni fisiche, come rifiuti della società, reclusi non per essere curati, ma per evitare di provocare danni al mondo esterno. E finivano per terminare la loro vita esclusi dalla comunità. Con il pensiero illuminista si svilupparono alcune teorie che cercavano di spiegare le malattie mentali, ma le tecniche di cura rimasero disumane: isolamento totale.
La svolta arrivò tra ‘800 e ‘900, quando nacque la psicoanalisi. Con essa, iniziò a diffondersi il pensiero che i sintomi delle malattie mentali andassero compresi, più che repressi; questo si contrappose a ciò che si era sempre pensato, ossia che la malattia fosse qualcosa di organico e che affrontarla in senso psicologico fosse una perdita di tempo.
In Italia, come nel resto del mondo, la gestione dei manicomi era critica, perché non vi erano particolari normative a riguardo ed essi erano solitamente affidati a frati e suore che faticavano ad amministrare il tutto: infatti ogni istituzione doveva essere gestita in autonomia, dal punto di vista amministrativo e da quello sanitario. All’inizio del XX secolo nacque un acceso dibattito scientifico e politico che sfociò, nel 1904, nella legge Giolitti: il primo documento ufficiale che regolamentava i manicomi, ma che di fatto rendeva la psichiatria uno strumento di controllo sociale. Fin da subito le critiche non mancarono, soprattutto per quanto riguardava la violazione della libertà dei cittadini. In ogni caso, questa legge rimase in vigore fino al 1978.
Gli istituti manicomiali restarono sempre luoghi di controllo ed ordine, nonostante le riforme attuate. Nella seconda metà del Novecento la società iniziò a pensare ai manicomi come posti in cui i pazienti perdevano la propria identità ed in cui le loro condizioni non facevano che peggiorare; di conseguenza a partire dal 1968 vennero approvate alcune leggi che fecero da sfondo alla più importante riforma del settore psichiatrico. Con la legge 431 si prevedeva il ricovero volontario e si fondarono centri di igiene mentale provinciali, con la 349 si cominciò a considerare la tutela della salute un diritto fondamentale; la 833, poi, istituì il Servizio Sanitario Nazionale. Tutti passi fondamentali per arrivare alla famosissima legge Basaglia del 13 maggio 1978.
Il suo promotore, Franco Basaglia, era uno psichiatra divenuto direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Proprio in tal posto si rese veramente conto della situazione in cui si trovavano i ricoverati ed iniziò a presentare qualche modifica nella loro gestione. Essi non dovevano essere considerati come numeri, ma bensì come persone che bisognava riabilitare per permettere loro di reinserirsi nel mondo esterno. Rifiutò tutti gli strumenti di cura volti a provocare shock ed il suo obiettivo era che i pazienti ritornassero protagonisti della propria vita. La legge Basaglia sconvolse i principi dei manicomi ed il modo in cui veniva fino al momento concepita la malattia. Essa non portò all’immediata chiusura dei manicomi stessi, come talvolta erroneamente si crede, ma smosse le coscienze del Paese. Nella pratica, prevedeva il divieto di istituire nuovi manicomi, la graduale chiusura di quelli già esistenti e che il ricovero nelle strutture avvenisse solo nelle situazioni di emergenza e per breve tempo.
A partire da quel momento iniziò il lungo percorso di chiusura dei manicomi e la loro sostituzione con Centri di salute mentale e reparti psichiatrici direttamente integrati nelle strutture ospedaliere. Le stesse cure per le malattie mentali sono ben diverse da quelle di un tempo: psicoterapia, vita in comunità o ricovero ospedaliero nei casi più gravi, ma non più segregazione o elettroshock.
Oggi un individuo affetto da un qualsiasi disturbo mentale è prima di tutto una persona, ma la strada della reale accettazione sociale della malattia mentale è ancora lunga. Non si reprimono certamente più i “matti”, né si spogliano della loro dignità, perché l’obiettivo terapeutico è quello della loro re/integrazione . Ma non siamo certo giunti alla convivenza naturale con l’idea di “pazzia”: nell’immaginario collettivo la malattia mentale non è ancora vissuta come quella fisica. E, nonostante la notevole sensibilizzazione degli ultimi anni sulla questione, fa ancora molta paura . In fondo, 50 anni, per cambiare radicalmente mentalità, sono troppo pochi.
Benedetta Pangallo