1934. Tra vecchi candelabri, volumi rilegati e oggetti d’ogni sorta si aggira il musicista Carl Orff, incuriosito dagli scaffali impolverati di un piccolo negozio di antiquariato della cittadina di Würzburg, in Baviera.
Ed è proprio mentre sfiora con lo sguardo quegli oggetti abbandonati che qualcosa attira la sua attenzione: un vecchio libro, ricoperto da un sottile strato di polvere e chiuso da chissà quanti anni. Giace su uno scaffale accanto ad altri volumi sgualciti e non sembra avere nulla di speciale, logorato e ingrigito com’è dall’azione del tempo. Eppure c’è qualcosa nei Carmina Burana che attira lo sguardo di Orff e che lo spinge ad aprire questo antichissimo codice.
Risaltano in tutta la loro enigmatica bellezza alcune miniature medioevali che accompagnano versi in latino e in tedesco. Attratto dalle figure, Orff sfoglia il volume e rimane affascinato dal tesoro che nasconde.
È come se l’inchiostro che impregna la pergamena fluisse nella sua mente, dando origine ad un indescrivibile turbinio di colori e suoni. Dalla fantasia del musicista nasce subito un’idea, una tela bianca che si colora delle tinte della melodia e che traduce in melodia il fascino antico trasmesso dalle pagine del codice.
Scegliendo di musicare 24 dei canti presenti nel codice, Orff porta l’opera a riemergere dagli oscuri fondali del dimenticatoio popolare sotto forma di “cantata scenica” mantenendo il titolo di Carmina Burana.
La storia di questi canti affonda le proprie radici nell’antico Medioevo, al tempo dei clerici vagantes o goliardi, studenti che, dopo aver abbandonato la carriera ecclesiastica, viaggiavano per l’Europa da un’università all’altra al fine di seguire le lezioni dei migliori professori.
Tra l’XI e il XII secolo,alcuni canti più antichi appartenenti alla tradizione goliardica e studentesca furono racccolti e trascritti nel Codex Buranus, un’opera costituita da duecentoventotto testi poetici scritti in latino e tedesco arcaico –i Carmina, appunto- in cui trovavano espressione le realtà quotidiane dei loro autori.
Tuttavia, dietro ai versi che trattano dei classici temi profani – i piaceri del bere e l’amore – si nasconde un velo di ironia e di sarcasmo, indirizzato soprattutto ai membri del clero.
I clerici vagantes, infatti, disponevano di molti strumenti culturali che permettevano loro di guardare con occhio critico la società e la politica del tempo –erano, ad esempio, insofferenti verso la corruzione del clero-, ma erano anche legati ai piaceri della vita terrena ed ostili agli eccessivi moralismi che spesso immaginiamo come caratteristici della loro epoca.
L’esuberante vivacità e la maliziosa spregiudicatezza dei goliardi si riflette nella scelta dei temi dei canti, primo fra tutti quello della Fortuna, intesa come un’entità superiore da cui dipendono i successi e gli insuccessi degli uomini. Essa è il filo conduttore che lega gli altri canti, una legge di fronte a cui l’uomo e la Natura si devono piegare e che agisce ciclicamente sull’intero Cosmo.
L’opera di Orff si apre proprio con il celebre canto “Oh Fortuna”, dedicato alla ruota della Sorte che gira decidendo il destino degli uomini e si chiude con lo stesso brano, per conferire l’idea di ciclicità della ruota stessa.
La Sorte fa da cornice ad altre tre tematiche, ovvero la primavera, la satira politico-sociale e l’amore.
Emblema della rinascita, la primavera è la stagione in cui nascono gli amori e dove la solitudine e la tristezza dell’inverno cedono il posto alla gioia e all’entusiasmo. Il destarsi della natura risveglia nell’essere umano la passione e l’amore, incoraggiando i sentimenti tra i giovani innamorati.
La Fortuna, invece, determina la sorte degli uomini e le differenze sociali vengono meno di fronte al vino e all’allegria. Ricchi, poveri, giovani e vecchi si uniscono in un canto a Bacco, prede dello stato di spensieratezza dato dal vino. Proprio nei canti che parlano della taberna trova la sua massima espressione lo scopo satirico dell’opera, alimentato dai numerosi richiami ai piaceri del bere.
L’ultima tematica dell’opera di Orff è quella dell’amore, trattata nella Cour d’Amours, un canto dove la bellezza delle vergini e la passione diventano oggetto di un elegante inno a Venere, in cui il romantico e il carnale si fondono insieme.
Le tinte con cui siamo soliti dipingere quell’epoca, quindi, si rivelano poco presenti o del tutto assenti in questi carmi, che costituiscono un meraviglioso affresco del Medioevo profano, una delle poche testimonianze laiche – a tratti addirittura anticlericali- di quest’epoca oscura e misteriosa.
Nonostante la critica del regime nazista che, in occasione della prima rappresentazione nel 1937, non li aveva graditi, i Carmina Burana hanno avuto un successo enorme, sia resi sul palco solo dall’orchestra e dai cantanti sia accompagnati da coreografie.
Cantiones profanae cantoribus et choris cantadae comitantibus instrumentis atque imaginibus magicis, ovvero “Canzoni profane per solisti e coro accompagnati da strumenti e immagini magiche”, infatti, fu l’unica indicazione lasciata da Orff per l’interpretazione scenica del suo capolavoro.
Egli creò un’opera musicale autonoma, ma volle dare rilievo anche a quello che più lo aveva colpito del Codex Buranus, ossia la potenza espressiva e il magnetismo creati dalle miniature.
Tuttavia, sebbene l’intenzione di Orff fosse quella di ricreare nello spettatore le sensazioni che le “immagini magiche” avevano suscitato in lui, per anni i Carmina sono stati resi sul palco come una rappresentazione musicale da concerto (orchestra e coro).
Proprio sul palco del Teatro Regio di Torino, grazie alla regista Mietta Corli, quest’opera ha trovato una delle sue rare espressioni complete.
L’interpretazione scenica, infatti, restituisce un’immagine fedele delle tematiche trattate nei canti, filtrata attraverso le sensazioni che accompagnano le parole dei clerici vagantes e guidata da una ritmica variegata.
Sul palco si alternano ambienti e personaggi d’ogni sorta, impegnati ora in canti e danze armoniose ora in lamenti angosciati e liriche. Solisti, cori maschili, femminili e di voci bianche danzano e si alternano in un gioco di colori accompagnati dalle melodie dell’orchestra, creando un’incredibile alchimia di suoni.
Si passa dagli orologi cosmici di Athanasius Kircher che si fanno interpreti della ruota della Fortuna alle armoniose coreografie della primavera, in cui giovani donne vestite di bianco danzano tra gli alberi in fiore sulle dolci note di una melodia estatica.
Ai suoni forti e angosciosi della taberna rispondono movimenti decisi e vigorosi, mentre eleganti figure femminili accompagnano il dolce e caldo canto dell’amore.
Un affresco musicale che si districa tra latino e tedesco arcaico, arricchito dalla potenza espressiva e dalla suggestione create dai suoni e dal movimento: i Carmina Burana sono un vero e proprio caleidoscopio d’arte.
L’alchimia di suoni creata da Carl Orff e la brillante interpretazione scenica delle “immagini magiche” di Mietta Corli danno vita ad una vera opera teatrale, che riflette nell’essenza la realtà etica dei clerici vagantes e che rievoca un’affascinante pagina della storia medievale.
I Carmina Burana costituiscono un ponte tra una realtà passata e una realtà presente e sono mediatori di verità quotidiane che persistono, nelle quali anche i ragazzi del nuovo millennio possono riconoscersi. Oggi come allora, infatti, la ruota della Fortuna fa il suo corso trascinando con sé gioie e dolori, aprendoci porte ed occasioni che siamo liberi di cogliere e sfruttare.
Giulia Castellana, Elena Catalanotto e Francesco De Naro Papa (2B-2D)