Una polo grigia, larga, tutta abbottonata; degli ordinari jeans scuri; delle comode scarpe beige consunte e consumate, da campagna; capelli bianchi, arruffati, radi a tratti. Nella sua quotidiana semplicità un distinto signore di settantotto anni, mani dietro la schiena, si aggrega silenziosamente ma amichevolmente ad un nutrito gruppo di liceali. Con apparente allegria, calma serenità, li accompagna, immerso in altre profonde riflessioni, dalle dimenticate strade di un borgo di montagna alla più recente modernità del Museo storico della Resistenza. Abbiamo infatti risalito strette e tortuose stradine dell’Appennino toscano per ripercorrere le vie di Sant’Anna di Stazzema, paese natale di Enrico Pieri.
La nostra guida ci conduce indietro nel tempo fino a portarci al 12 agosto 1944. Quella mattina giunge veloce in paese la notizia dell’imminente arrivo di una divisione di tedeschi, accompagnati da collaboratori italiani, spaventosa sorpresa non solo alle orecchie degli abitanti di Sant’Anna, ma soprattutto a quelle degli sfollati che da più parti d’Italia avevano cercato proprio in questo tranquillo ed isolato villaggio appenninico rifugio dalla guerra e riparo dalle bombe. Infatti questa pacifica comunità non si sarebbe mai aspettata alcun atto di rappresaglia da parte dei nazisti, poiché in quel paese non si erano mai verificati né attriti con i fascisti, né tanto meno azioni partigiane di particolare rilievo.
Gran confusione in paese: tutti si interrogano sul da farsi. Alcuni uomini scappano, convinti che a donne e bambini non possa accadere nulla, altri decidono di restare: l’uccisione di una vacca, illegale ma necessaria in quel contesto di povertà, fa sì che fra quest’ultimi ci sia anche la famiglia di un bambino di dieci anni, che seppur piccolo è già consapevole della drammaticità della guerra e di ciò che essa comporta.
Ma il tanto paventato incubo dell’arrivo dei tedeschi non aspetta, non ammette tentennamenti, si materializza puntualmente. Il nemico arriva e in men che non si dica si sparpaglia per tutto il paese.
Alcune famiglie vengono raggruppate sul piazzale della chiesa, altre vengono fermate per strada, altre ancora vengono raggiunte direttamente nelle proprie case; un solo destino le accomuna tutte: la morte. Ad essa non si sfugge: cinquecentosessanta persone vengono barbaramente trucidate. Cinquecentosessanta tra bambini, donne, vecchi, malati e uomini di chiesa. La barbarie non si ferma qui: le case vengono incendiate, tutto il paese è annientato. Quel bambino però, insieme ad altre due coetanee, riesce miracolosamente a sottrarsi a questo inferno, nascondendosi prima in un sottoscala, poi confondendosi in mezzo ad un campo di fagioli.
In questa statica posizione sono costretti a trascorrere scomodamente molte ore, con ancora impressa negli occhi di fanciulli l’immagine devastante dei propri cari uccisi a sangue freddo.
Dopo aver passato la notte al riparo di una grotta nella foresta, Enrico è raggiunto l’indomani dallo zio, che lo manda a vivere da una parente. Il bambino cresce con un vuoto incolmabile dentro di sé, e diventato ormai uomo, vive a Sant’Anna fino al 1951.
Dopo una parentesi di lavoro a Viareggio, si trasferisce definitivamente all’estero. Trascorsi più di trent’anni lontano dal paese natio, fatte salve brevi visite commemorative, vi fa finalmente ritorno per una grande causa: la memoria.
La necessità di testimoniare, per evitare il ripetersi di simili atrocità, trova progressivamente spazio dentro di lui, e la nascita del Museo storico della Resistenza non fa altro che consolidarla definitivamente.
Ed è così che quel bambino, settimana dopo settimana, anno dopo anno, accompagna con la sua calma serenità, apparente allegria, gruppi di studenti. Introducendoli nella sala delle conferenze, che ha sullo sfondo la bandiera italiana e quella europea, a conferma del suo status di “cittadino europeo” – testimoniato dalla decisione di fare studiare la lingua tedesca ai figli – rievoca con il suo inconfondibile accento toscano, mai senza commozione, i momenti più drammatici della sua esistenza, quegli attimi di terrore, di guerra, quel crimine gratuito contro l’umanità.
Uno solo è il messaggio: basta guerre, basta stragi, costruiamo insieme un futuro di pace e fratellanza in Europa. Ed esclamando “…coglione come sono, questi giovani mi danno ancora tanta forza…”, Enrico Pieri, bambino diventato uomo, diventato vecchio, se ne va sorridendo e ringraziando.
Alessandro Burrone
Luigi Mattioda