Il suo negozio si trova circa ad un isolato da casa, nel quartiere di Shemali. Abdulhamid corre più veloce che può, dopo una telefonata della moglie. Per sfuggire all’attacco aereo, si rifugia con la sua famiglia in un seminterrato. è questione di tempo, un’ora al massimo, prima che Aya e Ahmad, i gemelli di appena nove mesi, inizino a respirare a fatica e a tremare, presto seguiti dalla loro mamma e dagli altri familiari che si trovano con loro. Muoiono tutti per soffocamento, uno dopo l’altro, davanti agli occhi di Abdulhamid. Sono in diciannove a perdere la vita nello scantinato, schiacciati dal peso del gas chimico, che si fa strada nel corpo come un assassino silenzioso.
Ma partiamo dall’inizio. Sono le 6 del mattino in Siria, quando un raid aereo viene lanciato contro Khan Sheikhoun, una delle città occupate dai ribelli di Al-Qaida. E’ l’ennesima strage che fa accapponare la pelle. Una strage che brucia i polmoni e blocca la gola. “Dormivo quando l’aereo da guerra ha colpito” racconta un bambino ai giornalisti di Baladi News, seduto sul suo letto d’ospedale, “Sono uscito fuori con mio padre, ma la testa ha iniziato a farmi molto male. Mi sono addormentato, e quando mi sono svegliato mi sono trovato qui”. La strage conta più di settanta vittime, tra cui non meno di venti sono bambini. I medici del posto parlano di pupille minuscole come spilli, pelle fredda, e di un odore acre emanato dai corpi dei feriti.
Eppure questo non è l’unico supplizio ingiustificato che la popolazione siriana è costretta a subire giorno dopo giorno. Una delle tecniche predilette dai ribelli di Al-Qaida è la disseminazione di mine anti-uomo prima di abbandonare i territori da loro occupati. Gli esplosivi vengono nascosti nel terreno, o addirittura nelle abitazioni, aspettando in silenzio l’arrivo della prossima vittima. Basta così poco poi, una distrazione, un piede poggiato con noncuranza nel posto sbagliato, un bambino innocente che gioca in un campo. Gli ordigni esplosivi hanno un impatto devastante sui civili, il più delle volte mutilati se non uccisi, e il numero di vittime aumenta ogni giorno di più. La bonifica del territorio appare una prospettiva lontana e poco concreta: avrebbe un costo immenso e durerebbe all’incirca una trentina d’anni. In Siria non vi è più un luogo sicuro e tentare la fuga non fa che aumentare le probabilità di incappare in una mina o un esplosivo sotterrato. E’ lo spietato destino di uomini, donne e bambini innocenti, che non hanno colpe se non quella di esser venuti al mondo nel posto sbagliato.
Le vittime siriane dei gas tossici e delle mine anti-uomo sono civili, esattamente come noi. Noi, che mandiamo i nostri figli a scuola e mangiamo al ristorante nel weekend. Siamo gli stessi esseri umani, con qualche chilometro di terra di distanza. E mentre le bombe continuano a cadere dal cielo, non resta che ricordarci cosa vuol dire la parola umanità – parola troppo spesso dimenticata, o usata a sproposito – e imparare a riconoscere il suo volto, oggi. Ricordarci che, nel bene o nel male, siamo tutti sulla stessa grande barca e figli di un’unica terra. Dove tutto ciò che sembra esser rimasto di sano è la nostra umanità. L’umanità, che oggi ha il volto dei venti bambini morti sotto i fumi di un gas tossico. E delle donne e degli uomini che domani si alzeranno dal letto e dovranno camminare con cautela per paura di incappare in un ordigno inesploso. Un’umanità che nasconde il suo volto così bene da non riuscire quasi più a vederla. Vittima dopo vittima, non diventa che un puntino lontano, sempre più impercettibile. Ma esiste ancora, da qualche parte, in qualcuno di noi, e forse è giunto il momento di andarla a cercare.
Emma Barraco