Dai banchi graffiati e macchiati d’inchiostro alle scrivanie degli uffici, ai banconi dei bar e agli scranni del Parlamento. Il cursus honorumdel politico inizia proprio tra i banchi di scuola o, come dice il giornalista Giovanni Floris, all’ultimo banco. E le conseguenze non sono una sorpresa: oggi più che mai sullo scenario politico italiano sembra di rivivere le scene scolastiche, dove chi non ha studiato cerca di arrampicarsi sugli specchi con elaborati giri di parole. In altre parole, un “revival goliardico dell’intervallo a scuola”, come lo ha definito Floris nel suo ultimo saggio. Pubblicato da Solferino lo scorso maggio, Ultimo bancoaffronta un’indagine su due fronti, scuola e politica, due mondi intrecciati che insieme costituiscono la sfida delle future classi dirigenti.
“La svalutazione della scuola e il tracollo della politica” scrive Floris “vanno di pari passo”. In un certo senso sono l’una la causa e allo stesso tempo la soluzione dell’altra. Agire sul sistema scolastico significa agire sulla politica del futuro. Il punto è proprio questo: chi saranno i politici di domani? Tutto inizia da lì, dai banchi. Perché chi sta all’ultimo banco ci starà sempre, dentro e fuori dalle mura scolastiche. Chi ha imparato a cavarsela con qualche nozione e una buona retorica all’interrogazione di storia difficilmente cambierà strategia nella vita, così come chi si è abituato a fare affidamento sugli appunti del secchione e non ha mai preso in mano una penna. Se in un ambiente protetto e sorvegliato come la scuola basta un po’ di astuzia per sopravvivere, perché fuori dovrebbe essere diverso? In breve, la scuola insegna a vivere. “Se non fornisce gli strumenti adeguati per realizzarsi, insegnerà la frustrazione. Se non offre modelli positivi di autorità, insegnerà il disprezzo per le istituzioni. Se non formerà il popolo, formerà il populismo”.
Eppure spesso ci dimentichiamo questa verità. “L’equivoco”, scrive ancora il giornalista, “sta nella differenziazione netta tra scuola e mondo reale”. Alla base di questo abbaglio c’è il distacco percepito dalle nuove generazioni verso un sistema sempre uguale a sé stesso. Certo, la vita non è fatta di materie. Non saranno le leggi di Keplero o le completive latine a determinare il successo nella vita, ma la nostra capacità di relazionarci con gli altri, di comunicare e di metterci in gioco. E quale luogo migliore di un’aula?
Una domanda discutibile, visto che la situazione attuale del nostro sistema scolastico non è delle più rosee. Uno studente su quattro in Italia abbandona gli studi prima del diploma. Dal 1995 a oggi, sono più di tre milioni gli studenti che non hanno finito le superiori. Di questo passo, ci si aspetta che dei 590 mila ragazzi che quest’anno hanno iniziato la scuola 130 mila non finiranno gli studi. 151 mila si sono portati avanti e hanno già lasciato le aule. Una falla scolastica non indifferente, considerato che per ogni allievo lo Stato spende ogni anno 7000 euro. Stando ad una recente inchiesta de “L’Espresso”, lo ‘spreco’ degli ultimi 23 anni ammonta a 55,4 miliardi di euro.
Perché quei tre milioni di studenti hanno lasciato la scuola? La risposta non è facile. È evidente che ci sia una falla nel sistema, ma la colpa non è, come spesso si sente dire, soltanto di un’impostazione troppo nozionistica e poco pratica. Il problema è alla base, è la sfiducia dilagante verso una realtà controversa e i primi che se ne fanno portavoce sono gli studenti. Basta una risposta al professore, un “lei non sa chi sono io” o uno sguardo di sfida per capire che in troppi hanno perso il rispetto per il mondo della scuola. L’atteggiamento degli studenti parla da sé, ma loro non parlano. I sintomi dell’analfabetismo sociale diagnosticato alle nuove generazioni sono proprio l’abbandono, la chiusura al dialogo e la sensazione di non appartenere al sistema in cui sono inseriti. La scuola che “non funziona” e che “non inserisce nel mondo del lavoro” e è diventato un luogo comune a tal punto che sfiducia e disillusione dilagano in tutti gli ordini di studi. Non diciamo niente di nuovo: è evidente che, almeno in questo, scuola e politica sono sulla stessa barca.
All’ultimo banco in Parlamento oggi siede il fenomeno, il compagno carismatico e abile con la retorica, il maestro dell’arte del semplificare. “La semplificazione, scrive Giovanni Floris, è il nuovo rifugio dei peccatori contro la realtà” e il populista, quello che “sta dalla parte del popolo”, ne è l’esempio calzante. La sua visione della realtà si riduce a due schieramenti: chi sta con lui, cioè il popolo, e chi sta contro di lui, il nemico del popolo. Una semplificazione estrema del mondo che maschera la natura complessa delle cose, quella che si tende sempre di più a celare in nome della trasparenza. Insomma, ridurre all’osso un concetto “perché la gente non capisce”. Ma la semplificazione non è verità e, come diceva Paolo Fabbri, “il problema della verità è l’ultimo dei problemi del politico”.
Eppure arriva un momento, presto o tardi, in cui si va a sbattere contro quello che Umberto Eco definiva lo “zoccolo duro dell’essere”. Non esiste un’alternativa alla realtà: la si può nascondere, mascherare e deridere in una danza rituale che in Italia va di moda, ma non farla scomparire. Il protagonista di questo show è proprio il fenomeno di turno, che dall’ultimo banco sa bene che il suo pubblico cerca empatia e che quando verrà interrogato basterà l’ennesimo giro intorno allo zoccolo duro della realtà, magari infarcito di polemica e cinismo. Insomma, ci accontentiamo di una battuta brillante, di un discorso carismatico o di uno slogan provocatorio, ma non pretendiamo di più. Fino a che punto lasceremo che la verità sia la sintesi di sé stessa? Non abbiamo bisogno di complessità, ma di completezza. È ora di alzarsi e sedersi al primo banco, di pretendere una spiegazione, perché “il problema nasce quando si pensa che la democrazia sia il diritto di non sapere”. Non rimane che chiederci, in nome della sintesi, cosa siamo: popolo sovrano o popolo somaro?
Elena Catalanotto