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CaffèGira più volte il cucchiaino, che tintinna contro i bordi della tazzina bianca. Io sto in silenzio. Guarda con attenzione la macchia chiara del latte diventare una spira seguendo il movimento della sua mano.

Mi sono sempre piaciute le sue mani. Una delle mie fissazioni. Grandi, in grado di far cantare la chitarra con suoni lunghi della consistenza di una nuvola di fumo. Diversi dalle mie risate squillanti alle sue battute, dai miei gemiti rapidi quando quella stessa mano destra faceva del mio corpo nuove corde.

Quando mi parla sto ancora guardando la sua mano, che solo ora mi rendo conto non regge più il cucchiaino.

Vuole sapere come sto. Si schiarisce la voce e mi accorgo che devono essere passati parecchi secondi. Non ho risposto, sto sorridendo. Sto bene, la risposta viene fuori da sola.

Sto bene, sì. Lavoro, continuo a suonare. Non gli parlo di lui, so che ha visto l’anello e non sono necessarie altre spiegazioni. Non ho paura, non ho mai avuto paura di lui. Non mi preoccupa cosa possa pensare della mia vita – o non sarei qui.

Mi chiede di guardarlo negli occhi. Non mi ero resa conto di stare fissando il disegno verde sul tovagliolo di carta, alzo lo sguardo.

Mi vedo riflessa negli occhi scuri. I capelli sciolti sulla sciarpa leggera che copre le spalle nude.

Ha capito tutto. Mette una mano sulla mia, la ritraggo in fretta.

Non è vero che non mi interessa cosa pensi. Lo sguardo scuro è brillante, brusco nel passare dal mio viso al collo al seno.

Lavoro, continuo a suonare, ripeto. Imbarazzata dagli occhi su di me comincio a far girare l’anello intorno al dito. Abbassa lo sguardo sulla mia mano e si lascia andare contro lo schienale di ferro battuto. Incrocia le braccia sul petto.

Non è vero che non mi interessa cosa pensi. Essere qui è ammettere davanti a qualcuno la sconfitta. Davanti a lui, che me l’aveva predetta nell’ultimo sguardo mentre uscivo dalla stanza con il borsone a tracolla. Che ho odiato dandogli ragione in tutte le notti che ho passato seduta nell’appartamento buio chiedendomi dove avessi sbagliato. Certo che mi importa il suo giudizio. Sento una rabbia crescente al pensiero della soddisfazione che deve provare vedendomi tornare indietro. A veder confermate le sue previsioni.

Mi odio per avergli telefonato con un’esitazione adolescente nella voce. Per aver sorriso come non facevo da mesi al suo sì. Per aver curato ogni dettaglio del mio aspetto per ore prima di sedermi a questo maledetto tavolino. Ora posso solo scappare, tornare a casa come se niente fosse e scegliere il vestito per la cena di stasera. Sorridere quando aprirà la porta e baciarlo.

Tremo mentre mi giro per prendere la borsa.

Improvvisamente lui avvicina la mano e scosta la sciarpa. Posa le dita sull’ammaccatura da violino. Ne scaturisce un brivido che ha l’intensità di un suono e la stessa velocità nel percorrere il mio corpo.

Mi costa molto sforzo girare il viso e guardarlo. Conosco bene lo sguardo offuscato che mi rivolge. Non voglio che ritiri la mano. Improvvisamente le mie dita gli accarezzano il polso, poi lo stringono delicatamente.

Chino il viso ancora una volta.

Le sue dita si allontanano l’una dall’altra arrivando a coprire tutto il collo e io posso solo chiudere gli occhi. Immagini diverse mi turbinano intorno.

Come sempre sola nel grande letto, aspetto nel buio. Io sveglia accanto a lui, addormentato dopo l’amore. Lui seduto sul divano costoso, i gomiti sulle ginocchia e la fronte tra le mani, che ascolta senza capire le mie parole spezzate dal pianto. Il mio viso troppo pallido nell’ampio specchio di un atteso ristorante elegante. Il triste sgomento per la felicità alla scoperta dell’ennesima gravidanza mancata.

Mi sfiora la radice del naso, dove sento che si è formata una piccola ruga di frustrazione. Lentamente la pelle si distende di nuovo.

Il calore di un altro risveglio sotto la coperta colorata. Le carezze sulla schiena tesa dopo un concerto. La tristezza comune di non poterci ancora permettere un figlio. Le risate sconsiderate alla vista del bagno allagato, dove non c’era nessun mobile di lusso in pericolo. Il piacere soffocato nel suo vecchio appartamento condiviso con i compagni di corso. Sentirlo alzarsi una mattina e restare ferma di proposito perché mi portasse il the a letto. Farmi sciogliere lo stretto chignon e vedere nello specchio il suo viso immergersi nei miei capelli.

Dalla mia fronte si irradiano così altre immagini. Più lontane nel tempo, tanto più forti.

Per un attimo tremo davanti alla forza di un sentimento che si è mantenuto intatto e sopito, senza interferire con le mie decisioni cieche e senza tuttavia permettermi di soffocarlo. Di rinchiudermi senza via d’uscita in un’inquietante follia di autodistruzione.

Con fatica riapro gli occhi. È rimasto immobile.

Nonostante la calda confusione delle sensazioni so perfettamente che dipende esclusivamente da me, adesso. Si tratta di decidere chi essere – o semplicemente di essere.

Chiudo gli occhi per qualche secondo, lui ritrae la mano che ancora mi sfiorava il viso. Avverto il suo timore, ha l’odore conosciuto di una notte senza sonno.

Apro gli occhi. Di scatto mi alzo e afferro la borsa ancora appesa alla sedia. Gli sorrido, lui mi tende la mano.

 

Chiara Murgia (3C)

 

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