Infelix Dido

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Infelix Dido, verus mihi nuntius ergo venerat exstinctam ferroque extrema secutam?L’odore del fumo di pino aleggia in ognuno dei corridoi che percorro. Sbaglio più volte, mi ritrovo davanti al portone principale senza ricordare come ci sono arrivata. Torno verso i cortili interni, guidata dall’aria che trema di un calore, estraneo persino a questa costa secca. Non incontro nessuno, e per un attimo penso che siano tutti andati ad accoglierlo, che sia tornato ancora per una delle sue lunghe visite. Improvvisamente sudo, mi basta l’idea della sua presenza vicina per essere eccitata e tremare di paura.

Quando è arrivato la città cresceva: davo ordini, ero ordine io stessa. Stavo caparbiamente ai miei patti con l’Oltre, per mia volontà ma anche perché non avrei saputo dove andare. C’era una sola strada, e aveva come meta non la vendetta, ma la riuscita che avrebbe pareggiato i conti. Re e regina, ognuno dalla sua parte del mare. Sul pozzo vuoto di ciò che non avrei mai potuto riavere avevo steso il velo del voto. Sacrificavo la presenza di altri uomini nel mio letto, al mio fianco nei consigli di governo. Ma d’altro canto proprio per questo sono stata Regina, e non una consorte prodiga di eredi. Sapevo che lei, sebbene non avesse la mia stessa motivazione per andare avanti sola, l’avrebbe fatto dopo di me – per la mia memoria? Per se stessa? Per ciò che si era resa conto voleva dire decidere da sola?

Smisi di dedicare tempo ai bagni profumati e la notte arrivava per me solo quando tutte le spese e i profitti quotidiani della città erano stati annotati. La veste regale non mi interessava, era lei che badava a questo tipo di convenzioni. Smisi di essere la donna la cui natura e le cui occupazioni contrastavano tanto con quelle maschili. Anche se lo pensavo, non smisi mai di essere donna – forse sarebbe stata la mia salvezza. Bastò il suo arrivo a farmelo capire.

Non mi sentivo più in grado di decidere nulla, mi sembrava di poter finalmente chinare il capo – buffo come sia molto più facile accondiscendere che alzare la testa, mi sembrava addirittura di non aver desiderato altro dal giorno in cui ero salita sulla nave. Quando lui entrava nella sala, il mio corpo bruciava e nella mia testa si succedevano questi pensieri – da donna, li giudicavo poi nel buio della mia stanza – che facevano languire le torri in costruzione e fermare gli addestramenti dell’esercito. Quando, dopo le mille portate e i racconti che si ripetevano ogni sera, se ne andavano, io mi ritiravo e sentivo intatta la mia forza di Regina. Mi sentivo colpevole, e più di una volta mi gettai contro la parete, furiosa con me stessa per questa nuova debolezza. Mi ripromettevo che il giorno dopo sarebbe stato diverso, che mi sarei controllata, la fierezza per ciò che avevo costruito si acuiva sempre più. Ma la sera successiva già non potevo più aspettare. Vagavo per i corridoi, come ora; i servitori e gli amici mi guardavano con occhi in cui vedevo pietà e disprezzo. Furiosa con me stessa, tesa come un arco per sentire la sua voce davanti al portone principale, cercavo di stare sola nelle mie stanze. Ricominciai quei rituali femminili che la sua crudele azione – ma fu davvero solo per quello? – mi aveva obbligato ad abbandonare.

Mi rendevo conto di non poter controllare il mio umore e questo mi faceva infuriare tanto da cadere a terra con la schiuma alla bocca e gli occhi rossi. Giunsi a ferirmi seriamente e alla fine la consapevolezza prese il sopravvento. Se non ero più in grado di decidere da sola, che rimanesse, che placasse quella parte di me che aveva tradito la Regina, che mi amasse. Tornavo a sottomettermi a un uomo, ma questa volta mi parse più difficile: sapevo cos’era decidere per me e per il mio popolo e mi costava l’idea che la Regina che ero stata si facesse da parte. All’inizio della mia vita era stato più naturale.

Anche il desiderio che provavo nei suoi confronti era diverso. Maturo e insieme appena risvegliato, cosciente di cosa volesse dire l’assenza; sapevo cosa avrei vissuto e tuttavia ero sicura che non sarebbe stato come l’avevo conosciuto. Smettevo di essere quello che mi ero costruita con gli anni e, se in un certo senso tornavo la ragazzina nel palazzo dall’altra parte del mare, dall’altro diventavo qualcosa di nuovo. Accettai la scommessa.

Un forte rumore dal mare mi risveglia. Lui non è qui per una visita, lui non è più qui, con ogni probabilità è stata la prima sua nave allontanatasi dalla spiaggia a riscuotermi. Lui sta partendo, va dove spontaneamente non si sarebbe mai diretto. Diranno che non mi aveva mai promesso nulla, che fu tutta fantasia d’infatuata – ma nessuno di loro ha visto i suoi occhi parlare di futuro, i piedi camminare come sul suolo della sua patria, le sue mani indicare in un tramonto ciò che sarebbe diventato nostro.

Non avevo pensato ad un rifiuto. Era tutta una rinuncia da parte mia, così la vedevo, lui era arrivato qui per caso – caso! Ingenua che ero –, non aveva niente da perdere ma tutto da guadagnare. Non ci pensai mai perché sapevo che ci specchiavamo perfettamente l’uno nell’altra. Era così – non lo crederanno e piangeranno su di me, povera illusa, ma davvero non sanno.

Quando mi spiegò capii perfettamente ciò che diceva. Mi ferì il suo inganno, certo, ma non è per questo che sono qui adesso. Capii che doveva andare, e capii che non avrei vissuto a lungo dopo la sua partenza. Mi ero spinta troppo oltre, e anche se adesso mi rendevo conto di ciò cui andavo in contro non potevo fare più niente che non fosse ritrovare la dignità, almeno nella morte – questo lo capiranno! Si complimenteranno per questo mio resto di forza d’animo quasi maschile.

Lui andava perché gli dei in sogno gli avevano detto che così andava fatto. Io ero venuta perché l’avevo deciso. Avrei lasciato quest’uomo alla guida della mia città. Io lo desideravo, il mio corpo non viveva senza di lui.

Mi fu subito chiaro che non ero più degna di essere regina:  avevo anteposto il calore del mio corpo ai principi della città. E adesso, se anche mettessi lei al mio posto e mi ritirassi, non potrei vivere, brucio.

Mi rendo conto che non incontro nessuno perché sono tutti al porto, a dire addio al pio straniero. Vadano. Il mio addio sarà l’unico che non dimenticherà.

L’ultima volta ha dimenticato la spada nel salone, tanto si era infervorato nel descrivere la sua patria che bruciava. L’ho in mano, ed è un bene che nessuno veda. Mi credono a pregare davanti alla pira. Salgo le scale delle mura e arrivo in cima. Lascio spaziare la vista e lo vedo, ritto sulla prima nave. Mi guarda.

Mi rendo conto di gridare solo quando già sanguino.

 

Chiara Murgia (4C)

 

 

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