Si dice che l’era del consumismo sia finita. Si dice che sia finita da un pezzo. Ed in favore di uno stile di vita più “ecosostenibile”. Ma ne siamo proprio sicuri? E se ci fossero delle persone che si alzano la mattina, si stropicciano gli occhi, magari una stiracchiata, e tirando le tende guardano fuori dalla finestra? Non sembra niente di strano. Ma se loro vedessero una pianura di fabbriche? Centrali elettriche, nucleari, a carbone che producono chissà cosa giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto. Togliamo il se. Stiamo parlando del miliardo e mezzo di abitanti della Cina.
Esattamente un miliardo e trecentocinquantasette milioni. Più di un settimo della popolazione mondiale. Circa ventitré volte l’Italia. Insomma, si sa che la globalizzazione in Cina sia diventata un problema, non è certo una novità. Ma, forse, non si sa quanto la situazione stia sfuggendo di mano. Lo si capisce se si pensa che l’area metropolitana più popolosa della Cina, Shanghai, conta più di quarantacinque milioni di abitanti – praticamente due terzi dell’Italia intera. Lo si deduce dal fatto che la Cina detiene il primato in quanto a emissioni di gas serra. Ma soprattutto, il dato più allarmante è che una media di circa mille e quattrocento persone muoiono ogni giorno prematuramente. Si stima che nel 2010, l’anno con il picco di mortalità più alto, i decessi dovuti all’inquinamento atmosferico, ambientale e delle acque siano stati più di un milione. Come se tutta Torino fosse stata rasa al suolo. Sono solo numeri. Eppure non c’è altro modo di comunicare e spiegare la catastrofe che la popolazione cinese vive ogni giorno.
Il miliardo e mezzo sopra citato vive da qualche decennio in condizioni critiche. Lo smog che sovrasta la Cina è dovuto per lo più alle migliaia di fabbriche nelle cinture delle città. La principale fonte di energia cinese proviene da centrali a carbone, uno dei sistemi più inquinanti al mondo – che per questo motivo è fortemente sconsigliato dall’Oms (Organizzazione mondiale per la sanità). Si stima che l’intero paese dipenda al 60% dal carbone. Questo metodo di sostentamento è infatti vantaggioso sia dal punto di vista economico, in quanto vi è una grande disponibilità, sia dal punto di vista della produzione. Tuttavia, nella combustione vengono emesse delle sostanze inquinanti che, superando determinate concentrazioni nell’aria, risultano dannose sia per la salute umana sia per l’ambiente. A Pechino, capitale abitata da ventun milioni e cinquecento mila persone, la concentrazione di queste sostanze – le polveri sottili – può arrivare fino a venti volte il livello massimo raccomandato. Queste sono così chiamate perché hanno un diametro estremamente piccolo e possono dunque penetrare nei polmoni o addirittura nel sangue. L’elevata esposizione allo smog, e quindi la concentrazione all’interno dell’organismo delle polveri, provoca tumori e infarti che in troppi casi sono fatali. L’inquinamento ha picchi diversi giorno dopo giorno, nonostante ciò è normale fare fatica a respirare. Non è raro dover indossare una mascherina, o alcuni giorni persino una maschera antigas. Non è raro chiedersi cosa si stia facendo che motivi le morti, i malati, la giustizia mancata. Ma non è un problema solo dei nostri vicini; nonostante in Europa le emissioni di molti inquinanti atmosferici siano diminuite in modo sostanziale negli ultimi decenni, determinando una migliore qualità dell’aria, le concentrazioni sono ancora troppo elevate e i problemi legati alla qualità dell’aria persistono anche da noi. L’eredità lasciata dal boom economico euro-americano, sommata al problema dell’inquinamento asiatico, ha provocato un danno inestimabile alla biosfera. Sembra che non ci rendiamo conto che noi, esseri viventi, siamo un tutt’uno con il pianeta. Non siamo stati trapiantati. Qui siamo nati, cresciuti e qui moriremo. Per dirlo in poche parole, facendo del male alla terra che calpestiamo tutti i giorni, facciamo del male a noi stessi. E inquinando l’aria che dovremmo respirare, uccidiamo la vita.
Nel 2015 è uscito un documentario intitolato “Under the Dome”, letteralmente “Sotto la Cupola”, auto prodotto dalla giornalista cinese Chai Jing. Il lungometraggio è un’inchiesta sulla Cina del nostro secolo, con una snocciolata di dati agghiaccianti. Il tema principale è quello del futuro. Futuro inteso come generazioni future. Cosa succederà a tutti i bambini che nascono sotto la cupola? Una domanda che per ora resterà senza risposta. Come spiega il documentario, sono stati registrati casi di bambini di due mesi che, nonostante non siano mai stati a contatto diretto con lo smog, hanno sofferto di polmonite. I neonati vengono curati con l’aerosol e sulla loro cartella clinica c’è scritto solo “Polmonite di origine incerta”. Ma qual è il passo successivo? Come si può proteggere il nostro futuro da qualcosa di così incontrollabile? Che impatto avrà l’inquinamento sul domani?
Dopo centosettantacinque milioni di visualizzazioni, il governo cinese lo ha censurato. Forse troppo scomodo, forse troppo veritiero, aveva lo scopo di informare il popolo su quello che sta veramente succedendo nel paese. Su come sia stato trasformato in una macchina mangia soldi, senza rispetto per la vita. Aveva lo scopo di mettere tutti al corrente di quanto la situazione sia diventata ingestibile. Nonostante il governo cinese abbia preso dei provvedimenti – in particolare l’approvazione del “Piano Nazionale d’Azione, Prevenzione e Controllo sull’Inquinamento dell’Aria” per gli anni 2013-2017, una normativa che prevede la riduzione del contenuto di zolfo nei carburanti e un incentivo nell’utilizzo di energie rinnovabili – i progressi sono stati minimi. Il programma di recupero è ancora lungo e l’inquinamento continua a mietere circa cinquecentomila persone all’anno**. E il primo passo per incentivare la popolazione, che ovviamente è il motore di cambiamento, è quello di sensibilizzarla. Sensibilizzarla ad una scelta di vita più consapevole. Cosa che non avverrà se si continua a negare loro l’informazione.
“Ciao mi chiamo Cina, e sono un’inquinatrice compulsiva”.
Ginevra Galliano (4B – corrispondente dall’Australia)