Seguendo le ultime tre puntate di Servizio Pubblico, in particolare quella del 10 Gennaio, mi sono detta che sarebbe stato doveroso scrivere un commento per incorniciare l’inquietante e noto dipinto di un cavaliere sorridente con a fianco due giullari in escandescenza. Ma una volta sulla tastiera mi sono trovata davanti all’esatto opposto del blocco dello scrittore: quattro facciate di punti esclamativi, domande retoriche, abusi di maiuscole, turpiloqui, punti a capo che volevano rappresentare il vuoto sotto al patibolo, virgolette ironiche fino alla nausea, incisi incidenti.
Non proprio un articolo di giornale insomma, più una crisi isterica per iscritto. Ho provato a lasciarla riposare per vedere se ad un secondo passaggio si riuscisse a plasmare qualcosa di più ponderato. Niente, mi è bastato rileggere le citazioni letterali dell’ ex premier perché qualunque forma di pacata ragionevolezza andasse in fumo. È stata una frustrazione scottante quella che, più di tutto, mi ha lasciato sconfitta. La frustrazione di chi, davanti a certe scene, davanti a delle assurdità ed a delle prese in giro lapalissiane, ha talmente tanti argomenti con cui controbattere che non sa nemmeno più quali caricare nel fucile dell’accusa e rimane boccheggiante come un pesce. Non sa da dove cominciare, si sente sprecato e irritato nel dover far notare l’estremamente ovvio, nel dover sottolineare che basta un briciolo di buon senso per capire quanto alcuni atteggiamenti, se non fossero pericolosi, non meriterebbero alcuna considerazione. Non dovrebbero esistere, non dovrebbe esistere una dose sufficiente di sfacciataggine sulla terra per metterli in atto. Eppure …
Ho rinunciato, sarebbe stato necessario un saggio per commentare e smontare ogni singolo suono uscito dalla bocca di Berlusconi. Inequivocabilmente. Ma non l’avrebbe letto nessuno e nel giro di due giorni sarebbe ricomparso in chissà quale altro palinsesto costringendomi (dovere morale) a ricominciare da capo.
Ma non ho scritto questo pezzo per parlare degli articoli che avrebbero potuto o dovuto essere e non sono. Fortunatamente l’imminenza degli esami mi ha costretta a prendere in mano un volume che consiglio caldamente a chiunque non cerchi un saggio sul linguaggio politico imparziale. “Eccessi di parole” di Vittorio Coletti (di sicuro avrete presente il dizionario Sabatini-Coletti). Esclusi i primi tre capitoli, interessanti ma incentrati su questioni strettamente riguardanti l’evoluzione della lingua italiana (utili se volete scoprire quante volte nel “Decameron” appare il passato remoto ebbero piuttosto che la forma alternativa ebbono … ci siamo capiti), il testo si sviluppa prendendo in considerazione numerosi esempi nei quali si studia l’uso e l’abuso delle parole nella politica come nei processi, soprattutto quelli riguardanti i casi di diffamazione che si traducono spesso in un esercizio di analisi del testo. E ancora: linguaggio giornalistico di destra e di sinistra, la rivoluzione del linguaggio politico post Tangentopoli, la fortuna dei neologismi, storia di parole. Un vero viaggio per provare a comprendere il fiume di frasi vuote nel quale tentano di annegarci sempre di più, soprattutto con l’avvicinarsi delle elezioni.
Ed è stato proprio sfogliando questo spassosissimo volume che ho avuto modo di rispolverare il florilegio di uscite del cavaliere oscuro e di rendermi conto della rete (molto più studiata del previsto) che si cela dietro delle farneticazioni apparentemente assurde ma in pratica molto efficaci. È uno in particolare lo strumento dannatamente persuasivo che spesso lascia spiazzati gli avversari: la semplificazione.
Ecco il punto. Nei talk show, sui giornali, attraverso qualunque mezzo di informazione Berlusconi o chi per lui non parlano a Santoro, a Floris, alla Annunziata. Parlano al pubblico indeciso della prima serata. E non gliene frega niente di sembrare credibili davanti a quelle poche persone ben informate che si trovano davanti. I pesciolini che devono cadere nella rete di parole siamo noi telespettatori. Quale esca migliore di una visione chiara, semplice, lineare del mondo? Falsissima, certo. Ma nitida. Come la luce che i pesci lanterna, nell’oscurità degli abissi, usano per attirare le prede. Una grossa messa in scena che per essere rivelata ha bisogno di un confronto con la verità. Ma è questo il problema: la verità è complicata, è poliedrica, è molteplice, è difficile da capire e da affrontare. Non piace a noi pesciolini, lascia spiazzati o peggio senza speranze. Meglio credere che le cause della crisi siano semplici e ben definite, che le soluzioni siano a portata di mano. Che le tasse siano state una svista. Poco importa se tutto ciò emana un’aura di improbabilità sconcertante, è sempre meglio di una sfilza di “dovremmo analizzare”, “i sacrifici”, “non è facile fare previsioni”. Suona bene, ma non è una soluzione. Questa è la difficoltà di chi si trova a difendere in nome del buon senso le sue posizioni: controbattere un discorso realistico è paradossalmente molto più facile che giocare con un buffone che inventa le regole, le carte e lo scenario. Si finisce per perdere, almeno agli occhi dei telespettatori. E si fa un favore al parolaio di turno. Il che è snervante. Santoro, questo bisogna dirlo, doveva aspettarselo.
La semplificazione non è un trucchetto nuovo; le perle linguistiche semplificatorie che ha sfornato la destra negli ultimi vent’anni si commentano da sole. Riporto alcuni pezzi tratti da un articolo di giornale scritto dall’ex ministro Antonio Martino in riferimento al libro “La casta” di Rizzo e Stella. Parola chiave: invidia sociale.Si diffonde così l’invidia sociale in un clima giustamente definito di «neo-pauperismo giacobino». (…) si eseguono ricerche approfondite, anche se non sempre accurate, sui privilegi delle varie caste. Questa geniale trovata di quell’icona del giornalismo italico che è Gianantonio Stella è stata unanimemente accolta, fornendo la chiave interpretativa della complessità dei giorni nostri. La caccia all’untore è diventata lo sport nazionale, debellando il calcio (…) La convinzione di fondo è che, abolendo gli illeciti privilegi dei fortunati, si possano risanare le pubbliche finanze risparmiando agli italiani onesti sacrifici intollerabili e vergognosi (…) il mio ragionamento era molto semplice: la lotta all’evasione ha un costo: avrebbe senso spendere, diciamo un milione di lire per recuperarne centomila di imposte evase? È razionale sopportare novecentomila lire di maggiori imposte per recuperarne centomila evase? Alla soddisfazione di quale obbiettivo sociale vengono destinate quelle famose novecentomila lire? La mia risposta è altrettanto semplice: alla soddisfazione dell’invidia. Sapere che altri la fanno franca fa soffrire i contribuenti onesti (…) il mio augurio quindi ai cacciatori di streghe è che la maggioranza degli italiani sia composto da invidiosi, malevoli e sadici: se così non fosse i loro nobili proponimenti verrebbero scarsamente apprezzati. Mi viene difficile ridurre una questione di legalità come questa ad un complesso di inferiorità generale. Lo vedete bene anche voi, se avete occhi per guardare: davanti a certe affermazioni da giardino d’infanzia non si sa nemmeno dove cominciare. Un inizio potrebbe essere far notare che gli evasori, più che “fortunati” (i loro conti correnti non risiedono in Svizzera per merito della dea bendata) andrebbero definiti “disgraziati”. Per non parlare poi dello Stato, che con le sue tasse sembra un mostro celato dietro ogni frase, dal quale (non ditemi che non sembra sottointeso) è comprensibile che i più furbi (di intelligenza non mi sento di parlare) scappino … chissà, magari anche mettendo da parte i soldini sotto il materasso delle Cayman. Non è una novità che la destra parteggi per minori ingerenze da parte dello Stato. Solo che sembrano dimenticarsi che lo Stato sono anche loro, con le loro pensioncine stellari, i loro stipendi indecenti, i privilegi da casta e tutto il teatrino, finanziato dai poveri imbecilli che invece di scappare restano e pagano. Meno tasse? Bene, meno stipendi. Ma non penso che l’onorevole Martino su questa mini clausola sarebbe d’accordo. Ma ancora non è stato commentato il master piece dell’ex ministro, il nocciolo della questione: l’invidia sociale. Scusi Ministro, ma se davvero i contribuenti stessero cercando un rimedio alla propria invidia, non farebbero prima ad evadere il fisco anche loro? Un’evasione di massa, ancora prima di finire in gabbia, pensi che meraviglia! Non è forse più plausibile che dietro a questi atteggiamenti ci sia una normale voglia di giustizia? Anzi, la voglia di una giustizia normale, che divide i suoi frutti e le sue pene equamente? Perché sa, Onorevole Martino, se l’evasore si limitasse ad evadere, tutto sommato la questione rimarrebbe su un piano morale. Ma il problema è che molto spesso queste personcine si godono tutti quei servizi (sanità, indennizzi vari, stipendi, rimborsi, etc) che vengono pagati dagli invidiosi agli sportelli a fine mese. Spremono i propri compatrioti come dei limoni, fanno della propria pochezza una forma di eroismo contro un mostro-Stato inesistente e poi arrivano i rappresentanti del popolo in persona e li benedicono tacitamente. Sa quale sarebbe un bel modo di risparmiare quelle novecentomila lire? Basterebbe che la gente, tutta, pagasse le tasse e non ci sarebbe più bisogno di spendere per dare vita a questa caccia alle streghe (come la chiama lei); caccia agli stronzi (come la chiamo io). Ma sono sicura di non dire nulla di nuovo o di geniale. Forse il mio punto di vista è scontato, forse questa fantomatica invidia sociale è più nuova, meno articolata, più facile. Ma non è vera e non è giusta. Vale la pena consumarci su qualche neurone, a costo di scoprire che il mondo non è una messa in scena e che la legalità non è un’esibizione di psicologia spicciola. Ringrazio Coletti e gli altri autori citati e ripresi nel suo saggio per avermi regalato qualche strumento in più per non cadere nella rete della semplificazione. E mi scuso per essere ricascata in una visione della questione poco giornalistica e molto isterica. La mia è solo voglia di una giustizia normale.
Eugenia Beccalli