Janette

Tempo di lettura: 7 min

 

Fuoco. Davanti a me, vedo solo fuoco. Come quasi tutti i giorni degli ultimi mesi della mia vita. Le fiamme bruciano tutto ciò che si para loro davanti, come a sottolineare la loro supremazia, distruggendo ogni cosa che opponga la minima resistenza. Come ho provato a fare anche io, prima di finire intrappolata in questo vortice senza fine.

Questa volta è stata usata un’altra tecnica: cloruro di potassio, Pirex, candeggina, vasellina, cera. Si ottengono dei cristalli. Poi serve della benzina e il gioco e fatto. Bum. Succede un bel botto. Pochi grammi di questo filtro infernale e si può far esplodere un intero edificio. Questa volta il palazzo in questione è una scuola. L’ho capito appena sono entrata:c’erano ancora delle lavagne, rigate e piene di graffiti, bordate di un legno che stava andando in rovina.. C’erano dei banchi a cui mancavano dei pezzi, degli scaffali pieni di fogli e progetti di chi sa quale sbadato studente. Una scuola. Che adesso sta bruciando. O meglio, la scuola a cui io ho dato fuoco, sta bruciando.

È successo come tutte le altre stramaledette volte. Non ricordo neanche il motivo per cui ha scelto questa scuola, magari dopo, riuscirò a capire. Come sono arrivata qui è un mistero, irrisolto, come tutti gli altri.

Iniziano a venirmi in mente, parole, frasi, pensieri del prima. Stava pensando che aveva fame. Già. E poi qui. Mi sono svegliata, così ,davanti alla “Warriet School of Art”. 

Ne avevo sentito parlare, forse nella cronaca di qualche giornale locale. Era stata chiusa quando dei poliziotti, in un giro di ispezione, vi avevano trovato dentro due carichi di coca. Roba pesante insomma.

Sono iniziate le contrazioni di routine. Contrazioni è un eufemismo. Più che altro vedo la mia pancia muoversi senza controllo. Capisco. La mia vita si è trasformata, sta finendo a causa sua. Mi sono ripromessa di non parlarne, mai. Mai. Non è così facile però. Ha detto che verrà a riprenderlo. Basta. BASTA. Ecco, eccola la voce. La stessa che dopo essermi svegliata in un posto nuovo mi impartisce ordini. E subito devo bruciare. Devo bruciare qualcosa, qualsiasi cosa. E mi ritrovo sempre davanti a questi edifici vuoti, abbandonati che mi tentano. Brucia. Brucia tutto. Distruggi e ti libererai di me.

Mescolare le sostanze che mi ritrovo nella borsa è facile. Perché incendiare, dare vita al fuoco indomabile, diviene un obbligo, un bisogno primario, ancora più dell’aria.

E non riesco a dire di no. Con il fuoco riesco a riportare un po’ di controllo nella mia vita già alla deriva.

Perché quando tutto brucia e le fiamme mi chiamano a sé, riesco persino a sentirlo, la sua voce un po’ roca e minacciosa, vedo il suo volto, quelle cicatrici così profonde sul collo e sulle mani, i suoi occhi neri, profondi, in cui sembra di affogare, perdere il respiro. Quegli occhi che mi ipnotizzano…

Poi finisce tutto… E ritorno a essere me stessa. Per quello che mi è concesso essere. Perché io non ero così, prima. Ho cercato in ogni modo di disfarmi di quello che ero diventata, senza successo. In qualsiasi modo conoscevo, che non fosse troppo cruento, per lasciare un corpo su cui piangere, alle persone a cui fossi ancora cara.

Ho provato con le altezze, con i soffocamenti, con i tagli, perfino buttandomi sotto ad un’auto, per disperazione. Indistruttibile. Niente di niente funzionava. Mi ritrovavo sempre a casa, tramortita ma senza neanche un graffio. Ormai è diventato una parte incancellabile del mio essere, parte a cui sono attaccata profondamente. Tentativi falliti. Perché se cerco di distruggere lui, i suoi ricordi che lo tengono vivo dentro la mia testa, peggio ancora la creatura che per lui tengo in grembo, è come se decidessi di distruggere me stessa. Come se potessi decidere di morire. Come se potessi decidere qualcosa. A questo punto credo sia impossibile.

 

 

“Ehi J, vieni a vedere”. E’ mia sorella che mi chiama.

Camilla non è mia sorella, ma come se lo fosse. Cresciute insieme, stessa sorte, stessi incubi la notte, stessi sogni di giorno. Ovviamente non ci assomigliamo neanche un po’. Lei  ha  corti capelli castani, con qualche improbabile meche rossa e fucsia, fatta in un periodo di ribellione a qualche ingiustizia adolescenziale. Porta sempre strani foulard multicolori attorno al collo; ha un fisico minuto che però nasconde sotto ingombranti vestiti. Come cerca di nascondere il suo carattere esuberante. Anche se non ci riesce. Parla muovendo le mani, come a dirigere un’orchestra che solo lei può vedere, suonando note che solo lei può sentire.

“Ma che strilli, guarda che sono le due e mezza di notte”. E infatti arrivano le immancabili proteste della signora che abita sopra di noi, nonché mia padrona di casa. “Scusi signora Duster”. E’ una vecchina ficcanaso quanto avara. 

“ E capirai, ha solo da spendere un po’ di soldi per dell’isolante… e non solo”. Lo dice indicando il resto della casa. Non posso contraddirla. Questa catapecchia è un miracolo se si regge ancora in piedi: i muri sono pieni di crepe, la caldaia è sul punto di esplodere, l’aria è talmente umida che non abbiamo neanche bisogno di lavarci i capelli.

“E’ questo che ci possiamo permettere Cami”. Certo, io lavoro in uno squallido bar in periferia, e questa città non è che pullula di posti di lavoro. Soprattutto ben pagati. E Camilla, be’diciamo che non si spacca la schiena dal lavoro. Lei scrive. E non abbiamo neanche una famiglia che possa darci una mano, per far quadrare il bilancio. Siamo orfane. Io ho lei, e lei ha me. Fine della storia.

Mi ha interrotto dalle mie faccende per farmi vedere un annuncio sul giornale. E ultimamente sono molto impegnata. Tom, il mio sfacciato e volgare datore di lavoro, mi ha aumentato i turni. Se per aumentare i turni di lavoro, uno intende eliminare le pause sigaretta e staccare tre ore dopo il consentito, be’ lui lo ha fatto. Prendere o lasciare.

E io so anche il motivo. Quasi due mesi fa era lui che ci provava con me a tutte le pause, mi seguiva, mi mandava biglietti che erano un orrore ortografico. Fino a quando, molto educatamente, ho rifiutato le sue avances. Ma questa è un’altra storia.

“ Cercasi ballerina per serate fisse,  buona paga. Provini ore 8, Roser street.

 Ma è perfetto per te! Dai da quant’è che non balli, dai dai, sarebbe bellissimo, tiriamo su un po’ di soldi extra e poi il bar è molto chic e alla moda. La clientela non è da meno. Magari finisce che trovi il tuo principe azzurro!”.

Capirai la mia storia con Mark è finita da quasi un anno, ma io ancora non ho voglia di iniziarne un’altra. E poi è quasi un  mese che Cami mi stressa con proposte di lavoro. Fossero almeno per lei.

Provini di qua, provini di là. Non ne passo uno. Forse perché sono più di cinque anni che non calco un palco. O sarà che, quando rifiuti l’occasione di una vita, quella non si ripresenterà. Mai più.

È anche un mese, però, che non faccio che accontentarla. Mi dico, ancora questa volta, poi le parlerai. Non voglio mai deluderla, la mia sorellina minore. Lei ha cinque anni più di me, ma sono sempre stata io la più grande, la responsabile, quella con la testa sulle spalle. A lei è toccato il ruolo della sognatrice incompresa, dell’artista fallita. Ci piacciamo proprio perché siamo complementari.

“ D’accordo, d’accordo. Ci andrò”. Non mi va di distruggere i suoi sogni, lei crede ancora che la vita sia fatta di arcobaleni e cavalli bianchi.

 

Otto meno un quarto, del due gennaio e sono in coda per sostenere uno stramaledetto provino. Sono in fila con più di cinquanta ragazze. Sono tutte intente a riscaldarsi con i soliti esercizi di routine. Fletti la gamba, rilassa il polpaccio. Tendi la punta, allunga il tuo corpo finchè con il naso non tocchi il ginocchio.

Si vede che queste ballerine non sono dilettanti. Una ex professionista come me se ne accorge subito. Capelli raccolti in un ordinatissimo chignon, body lucido nuovissimo, nero, le cui uniche note di colori sono dovute alla scuola di danza di appartenenza.

Io sono fuori dal giro da un po’ e si nota. I miei lunghi capelli rossicci sono tenuti insieme da un elastico sfilacciato, raccolti in una coda. Il mio body è consumato, i bordi sono tutti rosicchiati e il modello è caduto in disuso. La mia scuola di ballo è fallita da un pezzo.

Riesco a capire chi sarà la ballerina che verrà scelta per il casting successivo: è rannicchiata contro il muro, in una scioltissima spaccata, bionda, tirata a lucido. Ecco che si alza, scioglie la tensione dei muscoli del collo e porta la magrissima gamba sopra la testa, come se fosse un arto inerme, staccato dal resto del corpo. Improvvisamente inizia a provare la coreografia. Da sola. Ecco da che cosa distinguo una ballerina vincitrice. Non parla con nessuno, sola con il suo asciugamano, prova i passi con indifferenza.

Quanto a me, a questo provino sono arrivata piuttosto svogliata.

Entro nel teatro passando accanto alle pesanti tende bordeaux che separano le quinte dal palcoscenico. I riflettori mi impediscono di vedere al di là  della fine del palco, creando subito una netta distinzione tra me e i miei giudici, si spera, prossimi datori di lavoro. Inserisco il cd all’interno della console, mentre elenco velocemente i miei dati: Janette Hayes, ventitré anni, texana, cameriera e, occasionalmente, ballerina.

Vedo un rapido cenno di assenso, comincio a ballare. Le note sono sempre le stesse, la coreografia ripetuta cento volte, i passi è come se li conoscessi da sempre.

Terminata la mia esibizione, vengo congedata con la frase “ le faremo sapere”, che io concludo”che non è passata”.

Fantastico. Quando arrivo a casa, Cami mi sente.

Non ne posso più di provini a cui mi scartano sempre, anche se è colpa mia.

La voglia di ballare è la stessa di quando, calzate le mie prime punte Block  a quattro anni , accompagnata dal supervisore alla scuola di danza dell‘orfanotrofio, improvvisavo un incerto pliè.

La voglia di lottare, invece, è cambiata da un po’. Dalle stelle della partecipazione ad un provino alla Royal Ballet, alle stalle dello squallido teatrino sotto casa.

Colpa mia, tutta colpa mia.

Prendo la metro e due pullman per ritornare a casa. La gente come me non può permettersi una macchina, tantomeno un passaggio in taxi.

Quando arrivo, però, non trovo la mia casa. Al suo posto c’è un ammasso di detriti, pietre e mattoni, scaraventati ad oltre venti metri dal luogo dove si trovavano, tutto in fiamme. Mi raggiunge la signora Duster, in lacrime, già in camicia da notte, coperta solo dalla sua vestaglia logora, esposta al pungente freddo di quella notte di gennaio. Sento solo parole come scoppio, caldaia, gas, Cami.

Dov’è Cami. Dov’è la mia dolce sorellina un po’ sbadata, quella che si dimentica di pagare l’affitto, di comprare la carta igienica, che scambia lo scotch con dell’isolante. Dov’è?! Dov’è ?! Non mi accorgo che lo sto urlando. Un pompiere cerca di calmarmi, mettendomi addosso una coperta calda e stringendomi forte. Non è la mia coperta, queste non sono le mani che vorrei mi stringessero adesso. Voglio solo sedermi sul mio divanetto un po’ scucito, sgridare la mia Cami e poi abbracciarla, bevendo una scadente cioccolata calda, che scaccia via le delusioni e porta dolci incubi.

Vengo stretta ancora di più in quella morsa troppo calda. Non riesco a sfuggire. Sto mentendo. Sono troppo forte per loro. Troppo arrabbiata. Arrivano  altri due pompieri per cercare di fermarmi. Gli altri cercano di spegnere l’incendio . Perché non si accorgono che io sto bruciando?!

Il mio mondo è andato in fumo.

 

Chiara Carrera (1C)

14450cookie-checkJanette

Post navigation