Kabul ore 18

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Sul letto c’era una pila di vestiti piegati, appena usciti dall’ultimo cassetto dell’armadio; macchie gialle, rosse, azzurre e verdi nel buio. Soprattutto rosse. Cinquanta centimetri di estate, il suo pezzo di estate. Buffo che l’avesse aspettata tutto quel tempo senza accorgersi che sarebbe bastato aprire le ante arancioni e sarebbe stata lì. Era solo che c’era troppo inverno in quell’armadio: i maglioni, le felpe col cappuccio, un piano interamente invaso dai suoi stivali col pelo. Jeans lunghi, sciarpe di alpaca che evocavano un viaggio in Perù. Aveva aspettato l’estate testardamente senza curarsi delle altre stagioni, nemmeno della primavera, che era nata e poi senza fermarsi si era portata via i suoi sedici anni. Buffo che avesse aspettato per tanto tempo quella data e poi, quand’era arrivata, se la fosse fatta scivolare accanto senza neanche un festeggiamento. Lui gliel’aveva anche proposto: una serata di disco apposta per lei. La possibilità di invitare mille e cinquecento persone, tutta la scuola. Invece la discoteca era diventata la sua camera, la voce di Cisco il sottofondo e l’unica invitata era stata Isabel. Avevano passato una bella serata, forse un po’ malinconica, lei seduta con la schiena contro il letto e Isabel sdraiata sul tappeto, l’una con una scatola di cereali dietetici e l’altra con una ciotola di latte e biscotti. Ad un certo punto lui aveva bussato alla porta ma lei non aveva risposto, e Isabel non aveva nemmeno mosso la coda. E pensare che era lì solo grazie lui. Ma aveva capito molto in fretta come funzionava, forse addirittura più in fretta di lei. Senza forse, di sicuro e come al solito. La pila di vestiti la guardava dal copriletto azzurro e pareva la porta dell’estate, mari di tela blu, prati di cotone verde, dolci colline arate di quasi autunno di seta marrone, mezzogiorni di lino color fuoco. E tutti insieme facevano un’estate. La sua estate.

Per terra il borsone di patchwork aveva un’aria triste, con le maniglie e lo spallaccio abbandonati sul parquet dorato. Una delle alette ricadeva ancora sulla zampa destra di Isabel; si rese conto che l’animale non aveva ancora mosso un muscolo da quando aveva telefonato Marco. Isabel era rimasta impietrita, sdraiata col muso tra le zampe, lei era crollata a sedere contro il muro e lui era rimasto fuori dalla porta. La stupì che non fosse ancora entrato, la porta non era chiusa a chiave, poi si rese conto che sulla porta c’era la mamma, il bene che lei le voleva e che il padre aveva smesso di volerle molto tempo prima, quando era partita per la prima volta. Non era la porta gialla che li divideva, ma un affetto così grande che per lei era una spina dorsale e per lui il più enorme dei fallimenti.

 

Cara Sofia,

qui sono le dieci di sera e quindi da voi a Parigi sarà più o meno mezzanotte. Sono sicura che Marco ti ha telefonato e ti ha tranquillizzata su quello che è successo. È bravissimo, il mio capo, a tranquillizzare la gente, perché dice la verità ma ti fa notare che, in fondo, c’è sempre di peggio. Io con Marco non ho parlato, mi hanno sequestrato il telefono satellitare che mi ha regalato il nonno, e forse è per questo che con il buio sono arrivate le mie solite insicurezze. Verso le otto un raggio di luce entrava ancora dalla finestrella e faceva brillare i capelli di Tomás, tanto che non riuscivo a guardarlo. Lui mi fissava come in trance, per proteggermi si è preso una discreta botta in testa dal sequestratore più robusto. ¿Todo bien?, ho provato a chiedergli un paio di volte. Lui rispondeva a cenni, perché se io sto pensando a te da quando hanno fermato la jeep, lui pensa a Nuria che è casa da sola con la mamma, la señora Dolores, quella che ci ha ospitate due anni fa a Salamanca.

Nessuno dei due ha parlato con Marco e si vede. Lui ora guarda fisso davanti a sé, dove c’è la porta, una porta che ci isola da sole quattro ore e già ci sembra un ostacolo insormontabile, l’esterno è già una meta irraggiungibile. Potervi raggiungere ci sembra più lontano di quanto non sembrasse a te l’estate quando sei tornata a casa ad Agosto. È decisamente fuori dalla nostra portata, e come sai percepire che non posso riuscire a raggiungere qualcosa, mi rade al suolo la logica e la razionalità. Ho paura. Ho molta paura, perché dovrei mentire, ho un enorme terrore che mi succeda qualcosa perché passerei dall’altra parte dell’albero senza vederti un’ultima volta, senza averti spiegato davvero perché sono nove mesi che non ci vediamo e perché continuerà così per sempre, molto probabilmente.

Con il buio è arrivato anche il dubbio di aver sbagliato a scegliere questo mestiere, o meglio di avere sbagliato a continuare anche dopo la tua nascita … dopo I tuoi sei anni. Del resto te le ricordi benissimo le discussioni tra me e tuo padre; lui mi voleva come non avrei mai potuto essere: integrata in un mondo che annega nella ricchezza il mal di quelli che stanno un po’ più in là. Di quelli che stanno a due ore e mezza di fuso orario da Parigi, per esempio. Non mi sembrava giusto smettere di raccontare cosa succede davvero nel mondo dimenticato, non mi sembrava giusto smettere di scrivere la realtà per lasciare che anche il mio posto venisse occupato da una persona disposta ad accettare di raccontare la realtà delle cartelline. Non mi sembrava giusto permettere altre confusioni fra vero e verosimile.

Con il buio però ho cominciato a pensare che sono un’egoista, che forse non sono mai cresciuta, che continuo a credere negli stessi ideali che avevo a vent’anni, che forse dovrei smetterla di girare tutte le guerre in corso e occuparmi di libri, come avrebbe sempre voluto tuo padre. Perché non ne scrivi uno? Sì, le mie memorie! Mi conosci e sai che sarebbe suonata falsa ogni mia parola, perché non l’avrei scriita con il cuore nelle dita. Semplicemente scrivere la verità è il mio mestiere; ma tu sei mia figlia, sei una parte di me. Sei la cosa più importante che ho. E come si fa, come si fa a scegliere tra la cosa più importante e l’ideale che ha sempre retto la tua vita? L’ideale che vuole che tu collabori a costruire un mondo più giusto dove far vivere la cosa più importante? Non lo so. Non si può, o forse non ne sono capace io, può darsi, però volevo dirti che sei con me, qui per terra in questo buco da cui spero di poter uscire presto. Sei con me quando l’aereo decolla e quando si posa in mezzo ad una guerra da raccontare, per male che faccia vedere ragazzi della tua età dilaniati dalle mine e uccisi dai proiettili di qualche coetaneo che sta dalla parte della barricata. Volevo dirti che ci sei anche se sono mesi che non ci vediamo e che soprattutto che io sono con te. Ci sono, questa lettera te la leggerò appena tornerò a casa e ci sarò, ci sono e ci sarò sempre, dovunque mi porti questa folle decisione di raccontare le cose più orribili che gli uomini riescono a fare. Ti abbraccio, mamma.

 

P.S. Ti immagino mentre guardi la fila di vestiti estivi poggiati sul letto, come fai da quando avevi esattamente tre anni, tre mesi e venti giorni e ti ho messo davanti tutti I vestiti di tua cugina perché scegliessi quali ti piacevano e quali no. ti immagino mentre pensi che la tua estate con me sia frantumata, che l’ho frantumata io con il mio mestiere assurdo ma ti prometto che la nostra estate ci sarà. Te lo prometto.

Chiara Murgia (1C)

 

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