Anche quest’anno, come ogni anno, è giunto i 27 gennaio: il “Giorno della Memoria”.
Anche quest’anno, come ogni anno, il 27 gennaio è stato colmo di indignazione e rabbia, espresse, ad esempio, tramite i cosiddetti “post” e “stati” dei social network: frammenti di poesie, canzoni,aforismi e passi di saggi sulla Shoah. Tutto rievoca il tema del ricordo, tutto contiene l’obbligo morale di non dimenticare in questo Giorno della Memoria. Un giorno su trecentosessantacinque.
La liberazione di Auschwitz, la strage che è stata la Shoah, o meglio, che fu la Shoah, in un tempo sentito come talmente remoto da sembrarci irripetibile, vengono rievocate un giorno all’anno, ma come un pleonasmo, nel senso più prettamente grammaticale del termine: un elemento che ripete un concetto già espresso da un elemento precedente nella stessa frase, rafforzativo, sì, ma quasi superfluo e scontato. Immaginiamo che la “frase” sia la storia contemporanea: in questo si sta trasformando la Giornata della Memoria, in un pleonasmo. Così il 27 gennaio di ogni anno nasce un mondo letterario nuovo ed effimero, della durata di 24 ore. In questo mondo fioriscono i ricordi strazianti dei campi di sterminio, si leggono poesie e storie che torcerebbero lo stomaco anche al più duro di cuore, ma lo scopo è sempre meno il valore propedeutico del ricordo, che invece viene sostituito dall’arroganza un po’ ipocrita di chi sembra voler dire: ” io so cos’è il Giorno della Memoria”. Spesso non è così Spesso le frasi d’effetto di un Guccini o di un Levi che leggiamo sui “social” sono avulse dal loro scopo e significato reale: documentare ed insegnare.
Sì, documentare, parlare della vita, se vita si può chiamare, meno di settanta anni fa durante uno scandalo globale capace di straziare il mondo intero, nessuno escluso. Un mondo raccontato da chi certe cose le ha vissute davvero, da qualcuno che ha voluto renderci partecipi di una delle pagine più terribili della storia umana e, in alcuni casi, della propria storia personale, attraverso forme letterarie.
È questa la letteratura, è immedesimazione, è un invito a conoscere nel profondo. È partecipazione, nel caso della Shoah, ad un destino orribile che non può finire nel dimenticatoio, perché la storia non si ripercorra.
“Visitatore, osserva le vestigia di questo campo e medita: da qualunque paese tu venga, non sei un estraneo […] Per te e per i tuoi figli le ceneri di Auschwitz valgano di ammonimento: fa’ che il frutto orrendo dell’odio […] non dia di nuovo seme, né domani né mai.” Così scriveva Primo Levi, che avendo vissuto sulla propria pelle cosa volesse dire “Auschwitz” è riuscito a coinvolgere chiunque non vi fosse stato internato, è riuscito a descrivere , attraverso il proprio dolore, il significato di “perdere tutto”, “perdere se stesso”, vivere o morire “per un sì o per un no”, condizioni non percepite dalla maggioranza come attuali e superficialmente etichettate come irripetibili. Tristemente troppo attuale è, invece, l’Uomo del mio Tempo di Quasimodo, che è piuttosto uomo del nostro tempo, uomo “della pietra e della fionda […] scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo”, uomo che odia e guerreggia per trecentosessantaquattro giorni all’anno, per poi raccogliersi in preghiera e mestizia quel 27 gennaio del ricordo.
Forse la letteratura, quella vera e documentaria, scritta, letta e capita, che non è quella vista di sfuggita e interpretata in funzione di una sola giornata e nel nome di un ricordo da condividere su Facebook , non è riuscita del tutto nel suo intento. Forse, però, non è nemmeno colpa della letteratura, forse è solo la testimonianza del fatto che l’uomo , in fondo, non è poi così diverso da qualche tempo fa, e che, forse, sarebbe pronto a ripercorrere quei tristi passi. “Il guaio del caso Eichmann era che uomini come lui ce n’erano tanti, e che questi non erano perversi né sadici, bensì erano, e sono tutt’ora, terribilmente normali.”
Lorenzo Del Balzo (5D)