Piove, le gocce scivolano sui vetri azzurri e da dove sono seduta sembra che cadano nella piscina, che creino le onde che increspano l’acqua. La piscina è in attesa, l’aria si scalda e l’odore di cloro deve essere fortissimo, nauseante. Vedo Sere che passeggia nervosamente, poi si siede sul trampolino con la testa tra le mani. Una goccia che scorre sul vetro pare una lacrima sulla sua guancia.
L’acqua è increspata, sembra il corso dei pensieri prima della gara che cerca di allontanarsi dalla piscina e poi ritorna con un brivido, un’onda di paura e ansia che lascia i muscoli sciolti e la sensazione dell’incapacità più totale, le braccia ricoperte di sudore freddo sotto la tuta. Le cuffie nelle orecchie non servono a niente, la musica è su un altro pianeta e anche le parole più profonde non sono con te in acqua.
La porta si apre ed entra un uomo alto e ben piantato. Posa un grosso borsone sotto gli appendiabiti e con un sospiro si rivolge a qualcuno che invece non si decide a entrare, a lasciare il rifugio sicuro dello spogliatoio. La ragazza non ha più di quindici anni, è magra, alta. La tuta è troppo grande per lei, che si aggrappa alla tracolla ricoperta di scritte come alla sua ultima salvezza. Distinguo un grande “Sarai la migliore” scritto in viola.
Non te lo auguro. Non ti auguro di essere la migliore, ti prego non esserlo.
Alza lo sguardo e incrocia i miei occhi arrabbiati, vedo lo smarrimento più totale sul suo viso che pare chiedermi perché non devo, perché. Si china sul borsone e io volto ostinatamente la testa. Non voglio vedermi di nuovo.
L’aria della piscina era caldissima, il sole di luglio penetrava attraverso il soffitto di vetro e faceva risaltare il blu e il rosso delle bandierine appese al filo. Il suo sguardo si concentrava ostinatamente sulla terza a sinistra, pur di pensare a qualcos’altro si era inventata un problema geometrico, incognite area di base, area totale e volume di un prisma con la base delle dimensioni della bandierina.
Troppo facile, e se il prisma fosse fatto d’acqua? Non ebbe tempo di fare il primo calcolo. La mano di Beppe sulla spalla la richiamava in piscina, era il suo turno. Tolse la tuta con un distratto gesto meccanico, spense il walkman e vide la scritta “Let it be – Beatles” schiarirsi fino a scomparire nello schermo ormai grigio.
Stretching. Almeno venti secondi per posizione. Francesca la scosse, era più di un minuto che faceva lo stesso esercizio. Di nuovo la mano di Beppe sulla spalla, ehi tocca a te. Le venne in mente la cosa più assurda che si potesse pensare in un momento come quello: a me? Tocca a me? E chi sono io perché mi tocchi tuffarmi?
L’avessi detto. Avessi detto no, ma perché a me, avessi lasciato tutto a qualcun’altra. Non l’ho fatto.
Se avesse detto una cosa del genere, Beppe l’avrebbe guardata con astio, fino a diventare rosso in viso e poi avrebbe fatto una delle sue urlate. O forse no perché era una gara. O forse avrebbe urlato più forte perché non era una gara, era la gara. Comunque non lo disse e nel tempo che impiegò a chiedersi che cosa le stesse passando per la testa era tutto già passato, era già tutto appartenente al passato, al suo passato.
Di nuovo tanti gesti meccanici, salire sul blocco, spingere la punta dei piedi fino al bordo, braccia in avanti, caricare il corpo. Sentì il via. Poi sentì l’acqua al posto delle mattonelle, acqua addosso al posto della tuta, acqua sulle braccia al posto del sudore. Troppa acqua. Troppa, troppa, troppa acqua.
Ebbe paura di tutta quell’acqua, paura dell’acqua per la prima volta in quindici anni. Proprio ora.
Le gambe si mossero da sole più in fretta, sempre più in fretta, le braccia fendevano l’acqua come non avevano mai fatto. Metro dopo metro, bracciata dopo bracciata per guadagnare l’aria e il cemento dell’altro capo della vasca. Le dita sfiorarono il muro e la gioia le invase la testa e tutto il corpo insieme all’aria, vampata calda di cloro, sole nel temporale.
La migliore. Sei stata la migliore, la più veloce, il miglior tempo della regione, sei grande vai alle Nazionali.
Le Nazionali. Di nuovo la paura di tutta quell’acqua intorno a lei, fra lei e il resto del mondo. Di nuovo una fuga disperata verso l’aria. Di nuovo il tempo migliore.
Avevo smesso di prendere l’acqua come un posto sereno, dove le cose mi arrivavano ovattate, dove potevo fare quello che volevo e quando volevo. Era diventata il mio mestiere.
Continuò ad essere la migliore. Cambiò diverse volte allenatore finché cominciò a fare la promessa del nuoto italiano di professione. E allora la sua fuga dall’acqua non bastava più per arrivare in fondo per prima. “Meno male che esistono queste, Francesca”, aveva detto Giulio, meno male. Erano il loro segreto, quelle pasticche bianche. Lo erano state per circa un anno, il tempo di arrivare a un passo dalle Olimpiadi, e poi erano diventate il suo segreto. Uno dei due.
Perché non abbia smesso quando forse potevo ancora fare qualcosa non lo so. O meglio, mi aiutava a fuggire più veloce, forse solo per questo.
Erano passati circa diciotto mesi dalla prima pastiglia. Si accorse che era cambiato qualcosa di irrimediabile in lei. In lei.
In me. Non ero più io e basta. Avevo perso qualcosa cui avevo sempre tenuto, che era sempre stato il mio orgoglio. Il fratello medico di Giulio disse che l’eccesso di steroidi aveva modificato in maniera irreparabile i miei ormoni femminili.
Capisci ora perché non devi essere la migliore? Ti prego davvero, ti supplico.
Volto di nuovo la testa e vedo che mi sta guardando con gli occhi sgranati. Distinguo le parole che sta pronunciando. Francesco il campione di nuoto.
Chiara Murgia