A tutti capita, prima o poi, di essere attratti da cattive persone: c’è in loro qualcosa di intrinsecamente affascinante, dovuto forse alla centralità che il confronto tra il Bene e il Male ha sempre occupato nelle comunità umane. Dopotutto è da questo che scaturiscono le più antiche questioni etiche ed è l’etica a dare forma a una civiltà. Pertanto è più che comprensibile voler conoscere il Male, sia esso incarnato da un politico corrotto, un assassino o un dittatore, perché vogliamo sapere quali sono le motivazioni dietro ai suoi reati, cos’è che ci separa da loro e ci salva. Ma non è semplice come sembra: per nostra stessa natura, più scopriamo i dettagli e le giustificazioni, più tendiamo a notare le nostre somiglianze ed empatizzare, sentiamo di comprenderli e l’apparente solidissimo muro che ci separa si sgretola sotto i nostri occhi. In breve, più conosciamo di una persona, più siamo costretti a riconoscere che siamo accomunati dalla stessa natura umana.
In fin dei conti, il punto di partenza è lo stesso per tutti: non c’è nessuno che nasca con esperienze e conoscenze pregresse, ma solo istinti di sopravvivenza e una mente molto malleabile. Ciò che segue (i princìpi assunti, i desideri e il pensiero analogico) dipende tutto dalle esperienze fondamentali e indelebili dei primi anni di vita. Così acquisiscono un ruolo cardine l’ambiente in cui si cresce, l’educazione dei genitori, i rapporti tra le figure di riferimento, le tradizioni popolari e le leggi; e una volta assorbiti questi valori, sovvertirli diventa ben difficile, se non per esperienze traumatiche quali lutti o abusi che possono costringerci a riconsiderare bruscamente il modo in cui ci poniamo di fronte al mondo. Pertanto, la nostra morale non dipende certo da un’innata forza interiore che ci guida verso il giusto, ma da tutta una serie di modelli esterni che assimiliamo senza nemmeno rendercene conto. È importante ricordarsene soprattutto quando, circondati da milioni di persone che condividono lo stesso stile di vita, potrebbe saltarci in mente che la nostra sia l’oggettiva verità, da diffondere (quando non imporre) agli altri.
Ai fini di questo ragionamento, una breve parentesi va dedicata anche ai disturbi mentali, in cui ora si potrebbe ricercare la ragione di certi mali identificandoli come deviazioni, almeno per quanto concerne assassini e simili, ma sarebbe un errore in quanto le diagnosi non descrivono malfunzionamenti mentali provati, ma semplicemente delle deviazioni dallo schema di pensiero e comportamento comune. Allen Frances, ex Presidente del Comitato Editoriale del DSM-IV (quarta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il principale e più autorevole manuale di psichiatria in circolazione al punto da essere definito la Bibbia della psichiatria) afferma: “Il concetto di ‘malattia mentale’ è terribilmente fuorviante: questi cosiddetti disturbi mentali vengono diagnosticati come si trattasse di malattie, ma in realtà sono solo descrizioni di comportamenti o pensieri […] niente di lontanamente paragonabile con la definizione medica del termine malattia” e ancora: “Non esistono prove oggettive in psichiatria […] Non esiste nemmeno una definizione di un disturbo mentale – non lo si può definire”.
Dunque, non possiamo nemmeno ascrivere i comportamenti immorali a malfunzionamenti biologici. Ma se potessimo, sarebbe corretto? Si potrebbe di certo ribattere a tale quesito, affermando che il principio fondamentale dell’etica sia proprio la biologia e sia dunque necessario orientarsi sui propri istinti, sull’empatia, la genitorialità e la protezione del gruppo, ma in realtà la società stessa si basa sulla repressione di questi (più di quanti ne preservi): l’egoismo, la violenza, la sessualità, fino a una parziale soppressione del libero arbitrio (come accade quando si mettono le proprie libertà in mano a un professore, un capo o un governo); insomma, appare evidente che il vivere civile sia scandito proprio dal contenimento degli istinti biologici. Si potrebbe allora far riferimento al principio naturale della preservazione della specie, ma la stessa logica precedente può essere portata a un estremo tale da contestare il presupposto che proteggere la vita sia giusto, in quanto anche questo non si fonda su basi oggettive ma ricade nella categoria degli istinti selezionati dal processo evolutivo.
Alla luce dei fatti, risulta impossibile ritrovare, in un contesto laico, un’etica universale; pertanto, non esiste il crimine punibile per principio, ma solo nell’ottica del sistema legale in cui questo è commesso. Eppure un criterio regolatore quantomeno soggettivo, condiviso dalla comunità umana, deve esistere. Verosimilmente, si tratta dell’egoismo, carattere che fin dall’antichità ha contraddistinto i peggiori personaggi della letteratura e della storia e che per descrivere con un termine più neutro e scientifico potremmo chiamare “istinto di autoconservazione”. Come in realtà più complesse (ad esempio quella delle relazioni internazionali) una persona accetta di non danneggiarne un’altra per timore di conseguenze esterne o interne; da un lato, la consapevolezza di poter risultare pericoloso agli occhi della comunità e dunque di ricevere punizioni anche peggiori; dall’altro, il disagio che potrebbe provare con la propria coscienza agendo in maniera scorretta; al contrario, se nessuno di questi limiti rappresenta un problema, la scelta risulta indifferente. È un modo di analizzare le circostanze e prendere decisioni, questo, che possiamo osservare in qualunque tipo di relazione, da quella tra due bambini a quelle tra istituzioni politiche.
Come già ipotizzato da Thomas Hobbes nel suo Leviatano, nel momento in cui si sviluppa la civiltà ciascuno rinuncia solo alle libertà che non vuole che gli altri esercitino su di lui; così vengono dichiarati illegali l’omicidio, lo stupro e il furto, mentre gli altri delitti seguono le necessità di chi formula le leggi nello stato. Si noti come in una monarchia il potere tenda ad accentrarsi sempre più nelle mani del re, che può permettersi di tiranneggiare, ma solo finché non si accorge di essere malvisto (e a quel punto si concedono delle libertà a chi può permettersele, rinunciando ai propri privilegi), mentre nelle democrazie, inevitabilmente, le leggi favoriscono chi può influenzare la stabilità del paese e la popolarità dei partiti in gioco, finché il popolo non inizia a ribellarsi.
In sostanza, chiunque cerca di favorire se stesso, finché ciò non comporta rischi maggiori dei benefici, tali da mettere in pericolo la propria salute o il proprio benessere morale. La legge diventa, così, non un mezzo per propugnare la giustizia, ma un potere superiore (paragonabile per più di un verso a quello divino) che i pochi possono usare per controllare i molti imponendo la propria morale, salvaguardandosi al massimo e concedendo il minimo. Questa sua proprietà non va dimenticata: pur riconoscendo la necessità di un sistema legale ai fini di una società regolata e funzionante, bisogna sempre tenere a mente che l’oggettività etica non esiste.
Ci piace cercare di distinguere il Bene e il Male, ci serve per mantenere l’ordine sociale e quello della coscienza personale, ma va riconosciuto che la distinzione è una terribile semplificazione che rischia di trarre in inganno, proprio perché fin da piccoli siamo abituati a vedere il mondo in bianco e nero quando andrebbe riconosciuto che non solo non è così, ma nemmeno in sfumature di grigio. Al contrario, si tratta di un caleidoscopio in cui nessun colore ha un valore predeterminato, ma ne riceve molteplici a seconda dei gusti di chi lo guarda e, per quanto il concetto sia disorientante, non è un male, bensì la più profonda affermazione di libertà a cui possiamo aspirare. Alla luce di quest’ultima analisi, infatti, l’egoismo non solo perde il proprio carattere negativo, ma diventa addirittura fondamentale: essere egoisti serve.
Bisogna sempre ricordare che il nostro benessere può essere definito solo da noi e mai imposto da altri. Bisogna sempre combattere per ciò che sembra giusto a noi. L’egoismo serve perché dobbiamo ricordare che il nostro pensiero conta e possiamo essere padroni di noi stessi.
Adriano Andrei