Abbiamo deciso di intervistare due giocatori di scacchi dell’Umberto I, Francesco Lavalle e Giovanni Trovato, rispettivamente primo in classifica e secondo, per capire il loro modo di giocare e tutto ciò che provano, giocando a scacchi.
Vi siete preparati molto per partecipare alle Convittiadi?
F: Si, certo … abbiamo fatto allenamento a scuola con un nostro compagno che ci ha insegnato un paio di aperture e varie tecniche.
G: Chiaramente abbiamo seguito questo addestramento. Senz’altro il contributo del nostro compagno è stato provvidenziale per noi, per raggiungere la nostra posizione. Quindi sì, la preparazione senz’altro è stata importante.
Secondo voi, serve intelligenza o un’altra qualità?Quale?
F: Innanzitutto si, l’intelligenza, ma anche e soprattutto la concentrazione; perché spesso si arriva a perdere non per mancanza di intelligenza, ma per mancanza di concentrazione; se per esempio un avversario lascia un pezzo scoperto e praticamente lo sacrifica.
G: Questo succede molto spesso. Vedete, un campione sovietico molto conosciuto diceva che il gioco degli scacchi è il gioco più violento del mondo, perché se pensiamo al football americano, certo, è una violenza fisica, ma cosa ne dite della violenza psicologica? In fin dei conti si tratta di trovarsi faccia a faccia con un avversario che si pensa di combattere con l’intelligenza, ma senza tenacia è difficile vincere la partita. Senz’altro sono molte le qualità di uno scacchista: prima di tutto la pazienza; senz’altro lo scacchista deve saper essere paziente e appunto, come si diceva, è necessaria una grande concentrazione; distrazioni possono essere molto severamente punite, ragion per cui, uno scacchista, deve sapere che ci troviamo davanti ad un’austera metafora della vita. Tutto qui.
Anche se il vincere una partita non è una cosa fondamentale, quale tattica usate per vincere?
F: La tattica principale è iniziare a usare le aperture, come d’addestramento abbiamo imparato durante l’anno, e poi iniziare a improvvisare, perché a metà partita sono fondamentali l’improvvisazione e la concentrazione.
G: Gli scacchi, purtroppo, essendo un gioco inventato dall’uomo ha un difetto: i finali e le aperture sono, nel 90% dei casi, teorici; in particolare nei tornei. È nel medio gioco che lo scacchista ha modo di dare sfogo alla sua fantasia. L’improvvisazione senz’altro è fondamentale e, come dicevo prima, anche l’aspetto psicologico è importante. Per quale motivo? Perché nel caso ove l’avversario giochi una variante sconosciuta, non sapere come risponder può rivelarsi fatale.
Ad ogni modo bisogna anche sapere affrontare e pagare i propri errori, quando si sbaglia. sempre che l’avversario se ne accorga. Generalmente si paga.
Avete, solitamente una preparazione pre- match, qualcosa tipo un momento di concentrazione o siete tranquilli quando l’avversario si siede davanti a voi?
F: Ma … sostanzialmente iniziamo ad allenarci con partite per lo più amichevoli. Per il resto riposo; sì, non ci impegniamo in attività faticose prima della partite ufficiali, perché potrebbe stancare la mente e, appunto, compromettere il risultato della gara.
G: Questa è una considerazione assolutamente personale. Io, per esempio, di natura sono, come dire, piuttosto ansioso, nel caso mi trovassi in un vantaggio, non dico materiale, ma anche in una posizionale notevole, riuscirei ad agitarmi. Riuscirei a domandarmi: quale motivo sto facendo questo tratto? Cosa intendo ottenere e quali sono le intenzioni? Ecc. Le domande sorgono spontanee durante il corso della partita da cui dipendono anche molte conseguenze; senz’altro il riposo della mente prima della partita male non fa, anzi giova solamente.
Chi vi ha insegnato e dove avete imparato?
F: Chi mi ha insegnato giocare a scacchi è stato mio padre, e lo ringrazio molto per questo. Mio padre era un appassionato e giocava e gioca ancora, su internet. Mi ha insegnato tutto quello che so e, appunto, lo ringrazio molto, perché a quest’ora, sennò, non sarei qui.
G: Al contrario io sono il primo della mia famiglia che gioca a scacchi, mio padre non ha mai giocato, neppure mia madre, avevo uno zia in Calabria che suppongo giochi ancora, ma semplicemente a livello amatoriale. Io ho imparato da solo, otto anni fa, in un circolo scacchistico; ho dovuto affrontare qualsiasi difficoltà da solo, sulla mia personale pelle e di conseguenza col passare degli anni l’esperienza cresce e si affrontano avversari di maggiore calibro; e per quanto la preparazione possa essere efficiente, c’è sempre il cosiddetto “timore reverenziale”: stare davanti ad un avversario che è risaputo essere forte, non è esattamente il miglior colpo per il proprio morale, quindi … Io non ho nessuno da ringraziare per quanto riguarda la mia esperienza scacchistica, a parte – ovviamente – quelli che hanno contribuito al mio, cosiddetto, successo; ovvero quelli appena menzionati, e quindi – tecnicamente- molti sono quelli da ringraziare; ma per quello che mi riguarda, ho fatto il possibile ed ho ottenuto i risultati che meritavo.
Che cosa vi ha appassionato maggiormente, ovvero chi vi ha spinto a continuare a giocare a scacchi?
F: Sinceramente a me ha appassionato molto la tattica, perchè negli scacchi essa prende molto spazio come, non lo so, una serie di sequenze o un calcolo matematico; appunto come mi appassiona la matematica, mi appassionano gli scacchi.
G: Lui parla dal punto di visto matematico, che non è sbagliato. Uno scacchista tedesco ormai deceduto, noto per le sue capacità, era anche professore di matematica al liceo. Io ho, invece, un concetto diverso degli scacchi: lessi tempo fa un articolo pubblicato da Primo Levi, nel quale si diceva che gli scacchi non sono altro che un’austera metafora della vita, una sconfitta può essere paragonata alla morte, ad un insuccesso. La vittoria, non come uno sfogo di superiorità, quanto più la possibilità, anzi la capacita di individuare le debolezze dell’ avversario e di sfruttarle. Io credo che ciò che mi ha spinto nel “nobil giuoco” ha uno stretto rapporto con la poesia: ci sono molti scacchisti, così come molti critici che non erroneamente hanno paragonato gli scacchi alle più alte forme di poesia, nel vero senso greco di “poieo” di fare, ovvero scientificamente poetici; perchè due principianti giocano una partita, ma fino ad un certo punto: non è altro che una sfida tra due menti diverse, due mondi, che si scontrano su un autentico campo di battaglia. Per concludere, l’uomo è stato in grado di inventare un gioco che rappresenti sè stesso.
Serena Zanirato
Chiara Carrera
con la collaborazioni di Pietro Fiallo e Anna Orsatti