La pulce

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doppioImmaginiamo una zecca. Anzi no, meglio, una pulce (“zecca” è un così brutto nome). Una piccola pulce, che se ne sta tranquilla, annidata in qualche sconosciuta piega della nostra anima e che magari è stata dimenticata; ogni tanto, zampetta qua e là o ci dà un pizzicotto, giusto per ricordarci che c’è, che è ancora viva e vegeta. Tu provi a cacciarla via, oh, se ci provi! Per vivere in pace ti lanci in interminabili peregrinazioni attorno al globo, bruciandoti la pelle con il sole africano, magari sperando di  bruciarla; oppure vai a fare il surgelato al polo (uno dei due, a scelta), sperando che muoia assiderata o che si becchi anche solo una polmonite, di modo che la maledetta se ne stia un po’ buona. Bruci i tuoi vestiti, ché magari ha messo un piede in fallo e prendendo una boccata d’aria è caduta in una tasca. Ti fai la doccia persino con l’aceto, perché qualcuno ti ha detto che serve, anche se dopo puzzi come un’insalata troppo condita, e ti sfreghi la pelle fino a farla sanguinare. Ti tagli barba e baffi e capelli, cambi casa e macchina e persino vita. Tutto per un po’ di pace. Ma è inutile. “Devi cambiare d’animo, non di cielo” dice Seneca. Ma il negozio di anime, dove ne trovi una su misura per te, giusta come un abito di sartoria, non ha una filiale nella tua città; e allora cominci a cercarlo in tutto il mondo, anche se tanto nel profondo sai che non serve. Non troverai nessun sarto di anime.

Chissà se Lucilio ha pensato qualcosa dei simile quando ha letto la lettera de suo amico Seneca che un messo gli aveva consegnato qualche minuto prima. Magari invece ha pensato: “Ecco, lo dicevo io, a forza di stare con quel folle di Nerone gli si è fuso il cervello”. Seneca però, comunque la pensasse il suo amico, dice delle cose che sono vere ancora oggi, e lo saranno sempre. Dice che puoi attraversare il mare, ma tanto sarai sempre te stesso. Per quanto il mare possa essere profondo, immenso e freddo, noi non mutiamo con la corrente.

Noi siamo composti da due personalità opposte, ed invariabilmente una di esse prevale, per quanto poco questo possa piacerci. L’autore dice di non stupirci se il nostro continuo viaggiare non ci cambia, se continuiamo a sentire ancora il peso di essere in una società che magari ci vuole come non siamo, anche dopo aver provato mille maschere e mille ancora. È inutile fuggire, perché dovunque tu vada, per quanto lontano tu possa provare a scappare, ci sarà sempre quella macchia nella tua anima, quell’altro te che magari vuole solo sfasciare il mondo, tanto per vedere che succede. E bisogna conviverci.

Quidi cosa possiamo fare? Visto che non possiamo cambiare anima, visto che non ci è concesso di strappare la nostra stessa essenza dal suo alveo (perché sarebbe come toglierci lo scheletro, e così facendo crolleremmo, privi di ogni sostegno, molli ed inerti al suolo, tra la polvere e la sporcizia di questo mondo, perché è l’anima che ci consente, se solo lo vogliamo, di elevarci al di sopra di tutto), possiamo almeno governarla, e costringere le due parti a convivere.

Siamo l’essere più evoluto che esista, solchiamo mari e cieli e lo spazio infinito ancora più sopra, conosciamo le leggi che governano l’universo e comprendiamo i segreti della vita. Saremo allora capaci di operare una scelta. “Io sono il capitano della mia anima” dice Henley. E allora prendiamo il timone e governiamola questa anima. Perché ne siamo capaci. Abbiamo solo paura di farlo, perché i cambiamenti spaventano.

L’anima è come una medaglia sfavillante che Dio o chi per lui (se è vero che esiste un’entità superiore), ci ha piazzato sul petto, e che tutti possono vedere. Ma come ogni medaglia anche l’anima ha un’altra faccia, oscura e sgradevole, che camminando può prendere il posto dell’altra e mostrare il buio che tutti portiamo dentro. È allora che giunge il momento di operare la scelta. Sta a noi decidere se girarla. Sta a noi decide se essere Jekyll o se essere Hyde.

Davide Costa (III H)

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