Il libro “La Strada” di Cormac McCarthy, scrittore statunitense, descrive il viaggio di un padre con il figlio attraverso una terra desolata nel tentativo di raggiungere il sud per scampare al gelido inverno ormai alle porte.
Il libro, ambientato in un mondo post apocalittico, si apre presentando la terra come una landa arida e sterile. Le foreste arse da tempeste di fuoco, alcune ancora attive, non sono nient’altro che gruppi di alberi carbonizzati. La cenere ricopre con numerosi strati il suolo. Anche il mare, che non possiede più l’immagine pittoresca che l’uomo conserva nella sua mente, ha un colore cupo a causa della cenere tanto da apparire nero e spaventoso, ma bellissimo al bambino che lo vede per la prima volta nella sua vita. Le città, ormai diroccate e prive di ogni antico comfort, sono il rifugio e la rovina dei pochi e ultimi sopravvissuti.
Gli animali sono ormai estinti e l’unico essere vivente che ancora riesce a sopravvivere è l’uomo, se si può definire tale. Ciò che prima distingueva l’uomo dagli altri animali è andato perso: non esiste nessun esempio di civilizzazione, nessuna convivenza, nessuna necessità di permettere alla razza di continuare. Ora tutto ciò che l’uomo fa ha un unico scopo: la sopravvivenza.
La perdita di civilizzazione viene segnalata da tre scene in particolare.
La prima viene presentata da un aggressione subita dai due protagonisti, uno degli aggressori viene ucciso. Poco dopo l’uomo ritrova delle ossa bollite lungo la strada. La seconda mostra delle persone tenute sotto chiave, senza né cibo né pulizia, nella cantina di una villa ai margini di una strada. Al centro della stanza vi è un uomo ancora vivo al quale sono stati asportati vari arti del corpo. La terza è la più esplicita. Un giorno padre e figlio si accorgono di essere seguiti da tre persone: due uomini e una donna, incinta. Poco dopo trovano un fuoco ancora caldo, che segnala la fuga di poco precedente al loro arrivo. Sulle braci c’è qualcosa ad arrostire: un neonato, probabilmente il figlio della donna.
È questo per lo scrittore il più macabro, grave e definitivo segno del degrado della civiltà umana: il cannibalismo. L’utilizzo di un intelligenza superiore utilizzata solo allo scopo di uccidere e sopravvivere, al pari di quella animale .
La presenza del bambino, in compagnia del padre, racchiude in sé, però, la speranza di un ritorno alla civiltà. Il bambino stesso,nato e cresciuto in un mondo duro e per nulla gentile, è in realtà una speranza: più volte si oppone alle decisioni del padre per salvare la vita di qualche sconosciuto. Accetta di aiutare un povero vecchio dall’età indefinibile; si preoccupa che il padre abbia cura anche di se stesso e non solo di lui obbligandolo a bere e mangiare ogni volta che lui stesso beve o mangia. Perdona l’uomo che li deruba lasciandoli a morte certa, nega al padre la possibilità di una vendetta e lascia sul ciglio della strada gli abiti che gli avevano tolto, nella speranza che il ladro tornando sui suoi passi li ritrovi e possa sopravvivere anche solo un giorno in più.
Il padre, più per se stesso che per il bambino, cerca di interessarlo a ciò che c’era prima di tutto quel silenzio. Gli racconta dei dinosauri, degli animali, delle città, gli racconta favole e storie che lui stesso aveva sentito da bambino nella speranza di trasmettere una memoria che ormai è andata perduta.
Sembra quasi che vivano perché hanno degli obbiettivi: raggiungere il mare, camminare verso sud, sopravvivere all’inverno. Ponendo questi obbiettivi il padre permette che il bambino continui a sperare fino alla fine, almeno fino a quando, già gravemente malato, non si arrende e nella notte muore. Il bambino allora, pronto a intraprendere il viaggio da solo, incontra un uomo, un uomo buono. Schivo, cerca di capire se l’uomo lo porterà in salvo come dice, ma è restio a lasciare il padre. Così l’uomo avvolge il corpo freddo e rigido in una delle coperte,dimostrando di non avere la volontà di uccidere per sfamarsi. Il bambino lo segue e il libro si chiude con l’abbraccio tra il bambino e una donna, che lo tratta come la madre che non ha mai avuto.
Lo stile utilizzato da McCarthy lascia poco all’immaginazione, se non per i due personaggi principali.
Entrambi privi di un nome, definiti per tutto il tempo come “l’uomo” e “il bambino”, simboleggiano una generalità, un rapporto. Rappresentano l’amore che alimenta i rapporti, il loro infatti è l’unico rimasto. Sono l’ultima candela accesa in una notte di tempesta, l’unica speranza. Le rare analessi, legate al personaggio dell’uomo, rappresentano per lo più il ricordo della madre del bambino. Questo personaggio, a mio parere, rappresenta l’amore incondizionato. Celata da una finta noncuranza, la decisione della donna è puntata verso la sopravvivenza del bambino. A conoscenza della propria debolezza decide di non essere più un peso e lo scrittore accenna soltanto a come la donna esce di scena.
I dialoghi dei personaggi mescolati con il testo della narrazione danno un senso di perdita, quasi come se quei piccoli tratti di interazione tra i due personaggi avvenissero con talmente tanta leggerezza da essere quasi intangibili anche ai due.
Pare che la narrazione lenta voglia far sentire la sofferenza, la fame e la paura provate dai personaggi direttamente al lettore. I tempi con cui il viaggio procede, la necessità di sentirsi al sicuro,ma soprattutto i momenti di scoraggiamento nei quali il primo a lasciarsi prendere dalla disperazione è il bambino, che chiede con insistenza al padre se moriranno o se riusciranno a farcela, sono i punti che più colpiscono. Tutto nella vita dei due vagabondi ruota intorno alla speranza.
“Ce la caveremo, vero, papà?
Sì. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sì. Perché noi portiamo il fuoco.”
È questo che a mio parere vuole trasmetterci lo scrittore. Ci chiede di credere che nonostante tutto si possa rinascere, perché la speranza rimarrà sempre l’ultima a morire.
Martina Paganelli (2H)