Svegliarsi al mattino. Aprire la finestra e guardare il mare verdeggiante che ondeggia e si estende per tutto il campo visivo. Sentirne l’odore chiaro e leggero, stranamente più puro del solito e rendersi conto della fortuna di vivere in un ambiente dove pochi uomini sono arrivati prima. Naturalmente, come in tutte le storie che narrano di naufragi, i rari marinai che sono riusciti a scorgere le coste dell’isola non sono riusciti a raccontarlo.
Non ci sono velieri incagliati nei banchi di sabbia lungo il confine del mare ma una delle più imponenti navi da crociera che abbiano mai solcato le onde e attraversato i mari più tempestosi.
Un Titanic dell’altro emisfero che non ha lasciato su una riva desolata i suoi passeggeri, o quelli rimasti, per una catastrofe o un iceberg ma per la disattenzione umana. Il timoniere, il capitano o qualche ufficiale di bordo deve essersi distratto o aver calcolato male i rischi di manovra. Ma a chi si può attribuire la colpa? In fondo il passato non può tornare, non resta che raccogliere i pezzi di ciò che è sopravvissuto e cercare di usarli per costruire una situazione passabilmente vivibile per tutti.
Ormai è un mese che mi sveglio con il calore del sole e il profumo di quel mare dai riflessi verdi; per fortuna il carburante non si è riversato nella foresta marina ed apparentemente i fatti più recenti, a parte la sagoma dello scheletro della nave, non hanno modificato la vita in questo remoto angolo del pianeta.
Gli animali si avvicinano tranquillamente e nidificano all’interno nelle fenditure più accessibili e sicure. Ma nulla è sicuro per noi, nonostante sappiamo che presto verranno a cercarci. Certo, una nave di tali dimensioni non scompare senza che nessuno se ne accorga, ma non è questo il vero problema.
È il ricordo. Noi non siamo come gli animali di quest’isola. Noi non dimentichiamo e non metabolizziamo gli eventi, non li superiamo. Ci teniamo dentro tutto il dolore mischiato all’ansia; è pericoloso ma dona al contesto una parvenza di normalità quasi disarmante.
Le colline sdraiate lungo la riva ci osservano attente, senza cambiare espressione, anche quando il loro colorito muta al calar del sole.
Tutti i superstiti si sono messi all’opera per procurare cibo, acqua e ripari; ognuno si è impegnato al limite delle sue possibilità, senza badare alla fatica e allo sconforto ed alla tempesta interna.
Sì, il mare si prende gioco di noi; lui è calmo ed impassibile, il nostro cuore scoppia.
Si continua ogni giorno a lavorare e lavorare senza fermarsi mai e senza sapere se può servire a qualcosa, ma non ci si deve scoraggiare. La speranza, la misericordia e l’intelletto sono le sole cose che ci distinguono dal resto della fauna dell’isola, poco; un filo sottile, un confine quasi intangibile.
Certo che, pensandoci, tutto questo si sarebbe potuto evitare, se non fosse stato per l’attimo di disattenzione, quante vite non sarebbero sparite tra le grida e le onde; ma ai responsabili, lasciati alla giustizia sommaria dei passeggeri, poco importa ormai.
Fatto sta che le tende di pelle sono utili quando piove.
Beatrice Cagliero (2B)