Nel lontano 1975, Bob Dylan con la sua chitarra cantava You’re gonna make me lonesome when you go, celebre pezzo dell’album Blood on the Tracks. Quarant’anni dopo, il romanziere inglese Ian McEwan porta sul palco (senza chitarra) un verso di quella stessa canzone e apre la cerimonia di premiazione del concorso letterario Bottari Lattes Grinzane 2017 con una lectio magistralis sulla concezione dell’“io” e sulla sua trasposizione letteraria. Ed ecco che Bob Dylan diventa il trampolino di lancio di un itinerario nella mente umana, un viaggio che tocca le tappe del pensiero dalla preistoria all’età moderna.
Microfono alla mano, il vincitore della sezione La Quercia apre il suo discorso con il celebre verso “You’re gonna make me give myself a good talking”. Nella «chiacchierata con sé stesso» sta il concetto cardine attorno a cui ruotano cinque secoli di letteratura: l’Io.
McEwan ci lancia una sfida, un quesito dalle mille risposte che è stato tramandato attraverso i secoli: che cos’è l’Io? Difficile definirlo, come è difficile definire noi stessi. Una domanda che ci costringe all’introspezione e che ci pone di fronte al paradosso di un concetto «di schiacciante ovvietà da un lato, ma fastidiosamente inafferrabile dall’altro».
Così vicino a noi, eppure così indefinibile. Coscienza, carattere, autostima… nessuna di queste parole sembra rispondere veramente all’idea di Io. E se il lessico quotidiano non aiuta si va a cercare una risposta altrove. Quale posto migliore delle opere letterarie degli ultimi tremila anni? L’espressione più nobile dell’Io risiede nelle parole di chi ha messo in versi la risposta alla fatidica domanda.
Il dolore di Didone è l’eco dei sentimenti dell’Io di Virgilio, così come quello di Shakespeare si nasconde dietro l’angoscia di Amleto. L’identità interiore dell’autore è il motore delle parole che compongono la sua opera, è regista ma anche protagonista della vicenda.
In questo senso i personaggi non sono che uno “specchio mascherato” dell’Io, una trasposizione letteraria dell’interiorità che prende forma e si muove sotto mentite spoglie. Questo fino all’età moderna, quando la fioritura rinascimentale porterà Montaigne ad affermare «Sono io stesso la materia del mio libro». Insomma, con il passare dei secoli l’Io si fa strada nelle opere degli autori, acquisisce sempre più importanza fino a divenirne protagonista. Un processo graduale che affonda le radici nel lontano VIII secolo a.C., animato dal canto del poeta più famoso della letteratura occidentale.
McEwan cede dunque la parola a Omero ed ecco che sul palco, accanto a lui, compaiono Odisseo e Penelope, che si ricongiungono dopo vent’anni. I versi del XXIII libro fanno da mediatori tra l’Io del poeta e il mondo esterno. Penelope non può credere che l’uomo che le sta di fronte sia suo marito e più volte lo mette alla prova fino a quando, incredula e piangente di gioia, lo riconosce e gli getta le braccia al collo. “Sempre nel petto il mio cuore tremava che qualche uomo non m’ingannasse con le parole”. L’Io, quindi, è nascosto dietro l’amore, il dubbio e la paura di Penelope, in quel dissidio che la lacera mentre cerca di soffocare la speranza del suo cuore e di imporsi su di esso, alla disperata ricerca di un modo per scoprire la verità. Ogni verso, ogni parola mette in scena una realtà interiore in cui riusciamo a riconoscerci anche dopo duemilasettecento anni.
Se con Omero la concezione dell’Io doveva essere ricavata dalla sua espressione scritta, con l’età moderna questa diventa vero e proprio oggetto di studio. Da Montaigne al XXI secolo troviamo le idee più diverse, a cominciare da quella avanzata dal filosofo inglese Galen Strawson.
In breve, l’Io come catena di momenti che si susseguono l’un l’altro o, per citare lo scrittore americano Henry James, il frutto dell’“immensa baraonda della vita”. L’Io nasce dunque come prodotto di una serie di eventi, alcuni casuali altri legati alle nostre scelte, ma tutti caratterizzati da un’imprevedibilità di fronte a cui siamo impotenti. Come disse Emerson, «siamo trascinati dal destino lungo il fiume della vita con l’espressione seria e l’assoluta ignoranza di infanti portati a spasso su un carrozzino di vimini».
Una visione che si antepone a quella largamente condivisa dell’Io come forma narrativa. L’idea dell’uomo come “creatura narrante”, che sceglie e scrive il proprio Io indubbiamente incanta. Dallo psicologo francese Jerome Bruner alla romanziera americana Mary McCarthy sono in molti a sostenere che in fondo siamo tutti “romanzieri esperti e raffinati” e che il nostro Io non è che la storia che raccontiamo a noi stessi. Si tratta dunque di creare la propria identità. Ma fino a che punto possiamo scegliere il nostro Io?
Secondo Strawson “Noi non siamo testi. Le nostre storie non sono narrazioni” e dunque non possiamo considerarci autori della nostra esistenza. La ragione? La vita stessa, con tutti gli imprevedibili fattori che l’uomo non può governare con le sue scelte. Epoca, età, esperienze, stimoli. Si potrebbe andare avanti all’infinito. Quell’inconoscibile, enigmatico e indefinibile Io non potrà mai corrispondere alla storia che gli attribuiamo, poiché non ne saremo mai veramente padroni. Ed è questo l’ultimo grande messaggio di McEwan: «Siamo soli dinanzi alla tragica impermanenza del nostro io».
Elena Catalanotto