La volpe e l’uva: una rilettura leopardiana

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Un giorno di Agosto, una volpe di nome Giacomo si aggirava nella campagna in cerca di qualcosa di cui cibarsi  nella  torrida  arsura  dei  prati  seccati  al  sole, finché ecco: apparve davanti ai suoi occhi da canide un magnifico grappolo d’uva, giallo brillante, con gli acini turgidi di dolcissimo succo; acini che ricordava solo  nella  sua  infanzia,  quando  Mamma  Volpe  lo viziava con tutte le attenzioni possibili. Già  si  pregustava  quella  prelibatezza,  tornava  un cucciolo  senza  preoccupazioni,  ancora  illuso  che  il mondo fosse tutto nella calda e accogliente tana, con al massimo un bimbo biondo, curioso  e innamorato di un fiore all’entrata. Al  ricordare  queste  immagini  idilliache  della  sua infanzia guardò il grappolo e gagnolò: “O natura, o natura,  perché  non  rendi  poi  quel  che  prometti allor?”.  Ricordava  bene  come  quelle  immagini  di sogno fossero crollate la prima volta che era uscito da solo dalla tana per cacciare (tra l’altro senza alcun successo)  da  sé  il  proprio  pasto:  cacciatori,  filo spinato, carcasse, frutta marcia e intemperie; di teste bionde  e  fiori  neanche  l’ombra.  Uno  shock  del genere  l’aveva  segnato  per  il  resto della  sua relativamente  breve  vita:  tornato  a  stomaco  vuoto nella  tana  non  era  più  riuscito  a  credere a  tutte quelle  belle  cose  che  immaginava  prima:  i  sogni erano  diventati  incubi  ed  erano  sopraggiunte  le malattie. “All’apparir del vero tu, misera, cadesti” borbottava riguardo  alle  sue  illusioni  il  rossiccio  mammifero, saltando per cercare di prendere il grappolo. Voleva tornare  a  godere  del  sapore  dell’illusione,  ma  non arrivava  agli  acini scintillanti;  per  quanto  si sforzasse,  il  grappolo  rimaneva  lontano  dalla  sua bocca affamata. “O caro immaginar, da te s’apparta nostra  mente  in  eterno;  allo  stupendo  poter  tuo primo  ne  sottraggon  gli  anni”.  Niente  da  fare;  il grappolo è troppo alto, le malferme zampe posteriori non saltano a sufficienza. “La  natura,  la  esistenza  non  ha  in  niun  modo  per fine il piacere né la felicità degli animali, piuttosto il contrario, ma ciò no toglie che ogni animale abbia di sua natura, per necessario, perpetuo e solo fine il suo piacere,  e  la  sua  felicità”  Imprecava  la  volpe.  Era colpa  del  grappolo  se  ora  si  struggeva  in  questo modo. E nonostante le suppliche, nonostante i guaiti e  i  salti,  il  grappolo  stava  lassù,  indifferente.  La volpe sapeva che l’unico modo per lei di stare bene era di placare i crampi allo stomaco che la fame le procurava.  “Uscir  di  pena  è  diletto  fra  noi” guaiolava  l’animale,  tristemente  consapevole  della propria condizione. Non si limitava però a prendere atto  di  quella  situazione,  il  quadrupede  si arrovellava,  si  indignava  e  protestava:  era  una situazione  ingiusta.  Cresceva  mano  a  mano  il rancore  verso  quella  che   “Madre  è  di  parto  e  di  voler matrigna”, una natura che non si curava di lui nonostante  l’avesse  generato.  Sebbene  la  natura l’avesse  messo  al  mondo,  adesso,  adesso  non  si curava  di lui,  le  era  indifferente  che  fosse braccato dai  cani  o  che  trovasse  il  pollaio  senza  guardiano. Non  le  faceva  alcuna  differenza  che  in  quel momento stesse morendo di fame. “Ora  domando:  t’ho  io  forse  pregato  di  pormi  in questo  universo?  o  mi  vi  sono  intromesso violentemente,  e  contro  tua  voglia?  Ma  se  di  tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo,  se  non  tenermi  lieto  e  contento  in  questo  tuo regno,  almeno  vietare  che  io  non  vi  sia  tribolato  e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia?” Ma  gli  acini  non  si  avvicinavano.  Il  nostro  canide ripensava  a  quello  che  fin  da  cucciolo  aveva imparato:  quello  della  natura  è  un  meccanismo  di continua  creazione  e  distruzione  che  va  avanti indipendentemente  dalla  sorte  delle  parti  che  lo compongono.  E  pensava:  “Ma  poiché  è  distrutto, patisce,  e  quel  che  distrugge  non  gode,  e  a  poco andare è distrutto medesimamente” Tutto  l’odio per  quella sua condizione si riversava su quell’irraggiungibile grappolo. Ripensava  con  orrore alla  sua  visione  di  natura buona  e  prospera,  dispensatrice  di  pace  e  serenità. Occorreva ad ogni costo unirsi tutti quanti tutte le volpi per combattere la natura e raggiungere l’agognato raspo carico; anzi meglio bisognava unirsi tutti quanti e piangere e consolarsi gli uni con gli altri per l’irraggiungibilità di quel ben di Dio. Già si sentiva a parlare ai suoi simili: La mia filosofia fa  rea  di  ogni  cosa   la  natura e  discolpando  gli uomini  (e  le  volpi)  totalmente,  rivolge  l’odio,  o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera  de’  mali  de’  viventi,  ec.”.  Così,  guardando  in alto  e  tornando  ad  illudersi  si  allontanava  dal grappolo che adesso disprezzava.“Così, anche fra gli uomini c’è  chi,  non riuscendo per incapacità a raggiungere il suo intento ne dà la colpa alle circostanze.” (Esopo, XXXII).

Eugenio Troìa (5C)

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