Intervista alla nipote di Cesare Pavese
Sono rare le volte in cui si ha la possibilità di scoprire in presa diretta curiosità o aneddoti a proposito di un autore. Normalmente le nostre conoscenze si fermano alle nozioni presenti sui libri, ed è forse questa la causa di quel senso di distanza che spesso e volentieri sentiamo nei confronti dei grandi letterati del passato. Ma questa distanza, noi dell’Umberto I, abbiamo avuto la possibilità di colmarla. Il 4 novembre, insieme alle professoresse Staniscia e Monticelli, ci siamo recate in zona Crocetta per un’inusuale intervista a Maria Luisa Sini, la nipote di Cesare Pavese.
Arrivate a casa della signora abbiamo preso posto, rendendoci subito conto di avere davanti una persona estremamente lucida e intelligente – alla faccia di chi dice che gli ottantasettenni non sono arzilli!
Una breve chiacchierata di cortesia ha dato il via all’incontro. Non c’è stato nemmeno bisogno di iniziare con le domande: la signora, infatti, dopo essersi presentata, ha cominciato a parlare dello zio spaziando su vari aspetti, dal modo di vestire, al rapporto tra lui e la famiglia, alle relazioni/delusioni amorose.
ML: lui [Pavese] ha sempre abitato in casa con noi, e quando è morto io avevo 22 anni e mia sorella 27. Era orfano di padre da quando aveva circa 16 anni. Non era molto indipendente, mia madre gli comprava i vestiti, ma non amava l’eleganza: se vedete le sue fotografie, infatti, noterete che il signor Pavese era proprio il contrario dell’eleganza. Avevamo un buon rapporto con lui, perché non ci abbiamo mai litigato; a volte discuteva con l’altro mio zio per questioni politiche, ma nulla di più. Però non c’era questa gran confidenza tra noi… Lui aveva la sua stanza e nostra madre, forse perché conosceva suo fratello, ci ha sempre detto che in quella stanza non saremmo dovute entrare e che non avremmo dovuto toccare o disordinare le sue carte. Parlavamo a volte, a tavola, quando lui non leggeva il giornale; mio zio non era molto loquace o aperto, o forse lo era di più con gli amici. Gli ultimi giorni della sua vita, nell’agosto del ‘50, scriveva ciò che aveva sempre scritto dal ‘35, “Il mestiere di vivere”, quel suo diario che adesso è anche un libro, tra l’altro molto bello. All’inizio del mese stava scrivendo le ultime pagine, e c’erano frasi del tipo: “faccio il consuntivo dell’anno che non è finito e che non finirò”. Nei suoi ultimi giorni era molto travagliato e nervoso. Una notte ci fu un temporale. La finestra era aperta e ha scompigliato tutte le carte. Siamo andati a metterle a posto, e pensando alla sua privacy non abbiamo letto niente. Se lo avessimo fatto forse avremmo prestato più attenzione, magari lo avremmo mandato da un medico. Quindi quando i vostri genitori vanno a leggere i vostri diari, cosa che magari vi infastidisce, non lamentatevi troppo. Perché pensandoci noi abbiamo perso un’occasione, e forse sarebbe bastata una parola, un consiglio, a salvarlo; invece non abbiamo fatto niente perché eravamo all’oscuro di tutto. Lui era così, viveva per conto suo, ma avevamo comunque buoni rapporti. Quando io e mia sorella eravamo bambine ci portava al cinema, specialmente mia sorella. La prendeva per mano; lui era molto alto e lei era ancora piccola, doveva corrergli dietro. Lui amava molto il cinema. Da giovane, dato che non c’era ancora la televisione, forse neanche la radio, ci andava moltissimo. Negli ultimi mesi della sua vita si era buttato un po’ in quell’ambiente, o almeno avrebbe voluto farlo, ma non ci è riuscito. Aveva avuto una delusione amorosa, e ne aveva spesso, anche perché sceglieva sempre delle letterate molto amabili, delle brave ragazze, ma per lui non erano adatte. Per lui ci voleva forse una donna come mia madre, che gli comprava le scarpe e gliele portava a casa, che gli comprava i vestiti e le camicie. Lui invece, negli anni ’40, si era innamorato perdutamente della Pivano, una gran bella ragazza che era stata sua allieva al D’Azeglio, tra l’altro. Le aveva anche chiesto di sposarlo, ma probabilmente lei non ha accettato perché lui le ha fatto la proposta troppo presto. L’ultima donna di cui si era innamorato, invece, era un’attrice che aveva conosciuto a Roma, Constance Dawling, detta Connie, venuta dall’America per fare carriera in Italia senza riuscirci. È stata affettuosa con lui, ma quando è arrivato il momento buono lei ha detto di no ed è tornata in America, e lui è sprofondato nel baratro della disperazione.
Amici che frequentavano la casa?
Ne aveva tanti, specialmente da giovane, quando faceva il liceo al D’Azeglio. Erano un bel gruppo di amici: c’erano Bobbio, Mila, Antonicelli, Pinelli, tutti diventati famosi. Mila è diventato un critico musicale famoso, Pinelli un commediografo, Bobbio un filosofo. Erano tutti molto raccolti presso il loro professore Monti, anche lui scrittore, che aveva consigliato a mio zio di insegnare come lui. Difatti era anche intenzionato a farlo, ma il concorso che doveva fare era proprio due giorni dopo che lo hanno arrestato nel ’35. Infatti per essere gentile con un’altra donna che ha amato moltissimo, una professoressa di matematica che è chiamata nei libri “la donna dalla voce rauca”, riceveva a casa nostra delle lettere che erano esclusive e parlavano di antifascismo e che venivano da Spinelli. Quando c’è stato il processo, per non tradire l’amata, si è addossato tutta la colpa. Quindi l’hanno prima incarcerato e poi mandato al confino in Calabria, a Brancaleone, un paesino della costa ionica sul mare. Naturalmente si è trovato malissimo, perché era lontano dalla donna amata ma soprattutto dal Piemonte, di cui era tanto amante. Viveva in una stanzetta e si preparava da mangiare da solo. Mi pare che in principio non avesse nemmeno la luce elettrica: c’erano le candele. Nelle lettere, soprattutto quelle che scriveva a mia mamma, diceva sempre di essere disperato e che non si trovava bene. Ma alla fine ha fatto amicizia perché ha trovato delle persone molto gentili, con cui si trovava al bar e chiacchierava, e da cui era chiamato “il professore”. Qualcuno era anche venuto a trovarlo poi a Torino, perché il confino, che doveva durare tre anni, era durato solo un anno. Quando è tornato, appena sceso dal treno, ha subito chiesto della sua amata e perché non fosse in stazione. Mia madre gli ha detto che si era sposata. Lui è svenuto. Ci è rimasto molto male, ma poi ha dovuto riprendersi. Ma i suoi amici del D’Azeglio sono rimasti fino alla fine, e con loro è stato molto bene. Aveva anche altri amici, che noi conoscevamo meno, ma erano i ragazzi del D’Azeglio che venivano spesso a casa, o in una villa che aveva la mia nonna materna.
Com’era l’atmosfera in tempo di guerra?
In quel periodo con lo zio abitavamo a Serralunga. È stato un periodo molto importante, che forse avrebbe potuto anche cambiargli la vita, soprattutto perché in casa c’era un’atmosfera molto religiosa. Una vecchia zia, zia Federica, andava sempre a messa, e circolavano sempre dei preti in casa. Lui tra l’altro frequentava molto il santuario di Crea: faceva lunghe passeggiate verso questo monte. E nei monti lui trovava il mito, che l’aveva ossessionato nei suoi ultimi anni di vita. Per quanto riguarda il suo avvicinamento a Dio… era cattolico, ma per un po’ aveva lasciato perdere la religione. In quel periodo invece ci si era avvicinato, essendo stato anche per un anno e mezzo al collegio Trevisio di Casale Monferrato, che era dei preti somaschi. Lui aveva fatto molta amicizia con un padre, padre Baravalle, con cui per lungo tempo si scambiò anche parecchie lettere. Questo padre lo aveva indotto perfino a fare la comunione. Quell’anno nel suo diario scrisse: “un anno importante che è cominciato con Dio”. Mio zio non voleva pensare alla religione come a una cosa obbligatoria, ma come una cosa da capire. Al termine della guerra però è tornato alla sua vita: Torino, Roma, Milano (dove c’era la casa editrice Einaudi) e la sua religione è andata a catafascio. Prima di morire però ha comunque mandato 5000 lire a un povero prete di campagna, alla Don Abbondio, che abitava vicino a Serralunga. Mio zio era un buon uomo, era generoso anche con noi. Quando ci voleva fare un regalo ci regalava qualche lira dicendoci: “Andate a comprarvi i nastri”. Evidentemente per lui una cosa femminile era bella solo se aveva i nastri. Era molto sensibile, fin troppo sensibile. Era spesso amareggiato, soprattutto negli ultimi giorni della sua vita, forse perché aveva avuto delle discussioni con il Partito Comunista, o magari perché qualcuno gli aveva fatto pesare il fatto di non essere andato in guerra con i Partigiani. In questo un grande ruolo era giocato da noi, dalla famiglia: mia madre non gli avrebbe mai permesso di andare in guerra. Oltretutto a livello di salute non stava benissimo, aveva l’asma, anche piuttosto forte, e moralmente non se la sarebbe mai sentita, perché un morto è un morto, che sia considerato un nemico o meno. E tuttavia c’era chi considerava questo fatto una vigliaccheria da parte sua.
Scriveva quand’era a casa oppure andava da qualche altra parte?
Sì, scriveva a casa, chiuso nella sua camera. Il diario probabilmente lo ha sempre scritto lì, tutte quelle pagine che noi non abbiamo mai letto.
Vi leggeva qualcosa?
No, non ci leggeva niente. Non c’era questa confidenza. Forse a causa di mia mamma, che per tenere lui “ovattato” in modo che non fosse disturbato, aveva reso difficile per noi passare del tempo con lui. Ci siamo avvicinati un po’ di più in tempo di guerra. In quella villetta a Serralunga le stufe erano poche, ed era come se vivessimo tutti in cucina. Lui aveva un tavolo davanti alla finestra e lì scriveva, leggeva, traduceva, e c’eravamo anche noi con lui.
Ricorda qualche colloquio avuto con lui?
Assolutamente sì, ricordo un po’ di episodi. Per esempio, quando eravamo a Serralunga in tempo di guerra e io frequentavo le magistrali, dovevo fare un tema su Dante. Lui era lì con noi e ovviamente gli ho detto “fammelo tu”, e lui l’ha fatto! E sapete quanto ha preso? Tre! Non gliel’ho detto, perché ero davvero mortificata. La professoressa si è trovata un tema fatto da Cesare Pavese sulla Divina Commedia e gli ha dato 3…
Qual è la sua opera di Pavese preferita?
Tra tutte io preferisco le sue lettere, specialmente quelle che mandava alla famiglia quando era al confino. Sono molto belle e a volte anche un po’ ironiche, perché lui aveva quell’ironia amara; riusciva a parlare ironicamente dei suoi dispiaceri, ma con una grande amarezza. A lui piacevano tanto “I dialoghi con Leucò”, che pensandoci sono molto attuali: in fondo il comportamento degli dei che viene descritto rispecchia il mondo e la natura degli uomini anche oggi. Questo per lui era il libro più caro, probabilmente lo aveva anche pubblicato a sue spese. Non era andato molto a ruba; effettivamente è uno dei libri più complessi.
Aveva un libro preferito che non fosse una delle sue opere?
Non lo so, sinceramente. So che aveva tantissimi libri e giornali. Leggeva molto: a volte capitava perfino che leggesse per strada e che inciampasse preso dalla lettura. Da giovane amava molto la letteratura americana. A vent’anni aveva tradotto “Moby Dick”, libro molto complesso, e la sua tesi, fatta sempre a vent’anni, era su Walt Whitman, un poeta americano abbastanza tosto… la tesi era di 400 pagine. Con le traduzioni guadagnava qualcosina, e faceva qualche supplenza in quel periodo, non potendo insegnare, ma senza guadagnare molto. Mio papà faceva l’impiegato e mia mamma, come tutte le donne dell’epoca, non lavorava. Ma a mio zio questo non pesava.
Comunque aveva tradotto tanti libri, soprattutto americani, e amava essere preciso e usare le parole adatte. Infatti i suoi manoscritti sono molto cancellati e riscritti, e quando traduceva dall’americano, che non è come l’inglese ma ci sono tanti modi di dire dialettali e in “slang”, non trovava nemmeno le parole sul vocabolario. In quel periodo aveva instaurato un’amicizia letteraria con un italo-americano; si scrivevano molto, e a volte lui gli inviava le frasi che non sapeva come rendere bene in italiano e l’altro gliele spiegava. Ci teneva davvero a scrivere correttamente. Evidentemente dagli americani aveva anche imparato quel suo modo di scrivere per cui è stato anche criticato. Infatti lui scriveva in italiano, sì, ma a volte ci metteva delle espressioni dialettali. A lui sarebbe piaciuto tanto andare in America, ma non ne ha mai avuto la possibilità. Allora c’erano le navi e i viaggi erano lunghi e costosi: la famiglia non poteva permetterselo. Lui aveva tentato di vincere una borsa di studio e partire; forse così la sua vita sarebbe anche cambiata, e invece niente.
Voi avevate la sensazione che fosse un uomo eccezionale?
No, per niente. Quando ha vinto il Premio Strega, due mesi prima di morire, gli avevamo detto qualcosa come “Ah, hai vinto il Premio Strega! Tanti auguri!”. Non è che fossimo insensibili, erano proprio i tempi che erano diversi. Lui certamente aveva delle ambizioni, perché a volte se lo lasciava scappare in alcune sue opere. Però è morto senza sapere che sarebbe diventato celebre, il che è un peccato. C’è da dire che lui non si faceva onore, erano altri tempi, e c’era molta più austerità.
Voi siete gli unici parenti?
Sì, siamo gli unici. C’erano altri Pavese, ma sono morti quasi tutti. Il carro funebre che ha portato le sue ceneri a Santo Stefano è di un Pavese, ma non è un nostro parente!
Lui era molto legato a Santo Stefano. C’era un certo dottor Vaccaneo, molto amico di mia madre, che ha messo su il Centro Studi dove c’è una bellissima biblioteca. Lì ci sono anche dei documenti forniti da mia madre, come il libro su cui mio zio ha scritto le ultime parole prima di morire (“I dialoghi con Leucò”): “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono, non fate troppi pettegolezzi”. Probabilmente già sapeva che dopo la sua morte ci sarebbero state molte chiacchiere. In quel periodo aveva anche scritto “La luna e il falò” in un mese e mezzo, tra la fine del ‘49 e il ‘50. Quando finiva di scrivere un libro si sentiva come un fucile scarico, si sentiva vuoto. Tra l’insuccesso con le donne, le chiacchiere e il suo stesso temperamento, il suo suicidio non fu una sorpresa.
Come mai quindi la scelta di vivere con voi nonostante sua madre fosse in vita?
C’era anche la madre, all’inizio eravamo tutti insieme! Mio zio ha vissuto con la madre fino a quando suo padre non è morto; poi sia lui che sua madre si sono spostati a casa nostra.
La conversazione si è conclusa con un breve spuntino offerto gentilmente dalla signora, cosa molto gradita ai nostri stomaci affamati.
Quello che possiamo affermare è che è stata certamente un’esperienza unica nel suo genere e che, grazie a questa, siamo riuscite a conoscere per la prima volta la profonda umanità che sta dietro a uno scrittore di fama internazionale, e che talvolta ci si dimentica: il Pavese uomo. Sensibile, tormentato, stanco di fare del suo vivere un mestiere.
Federica Curreli e Elisabetta Gucciardi (5B)
Con la collaborazione di Beatrice Cagliero e Diana Greco Ciobanu (4B)