Incontro davvero particolare quello che abbiamo avuto giovedì 4 ottobre a Palazzo Lascaris con Franco Berlanda e Ferruccio Maruffi. Il primo fu attivo nell’esercito partigiano del cuneese e successivamente divenne un famoso architetto, mentre Maruffi, partigiano, fu deportato nel lager austriaco di Mauthausen ed è attualmente Presidente dell’ANED del Piemonte.
Due storie diverse con uno sfondo comune: i drammi e le sofferenze della seconda guerra mondiale.
Franco Berlanda
Nato nel 1921
Profilo: Franco Berlanda, prima capitano degli alpini e poi comandante di una brigata partigiana, prende parte nell’aprile del 1945 alla liberazione di Torino. Oggi è un architetto affermato.
Raffaele Maruffi (“Ferruccio”)
Nato il 4 marzo 1924
Profilo: Raffaele Maruffi diventa partigiano, entrando a far parte della II Divisione Garibaldi in Val di Lanzo, con il nome di battaglia di “Ferruccio”.
L’8 marzo del 1944, a soli 20 anni, viene arrestato durante un rastrellamento e detenuto nelle carceri Nuove di Torino, per essere poi deportato, il 16 dello stesso mese, nel campo di Mauthausen.
Dopo alcuni spostamenti in altri campi (Gusen 1, Schwechat, Gusen 2), rientra a Mauthausen; viene liberato dalle truppe americane il 5 maggio del 1945.
Tornato a casa, inizia ad incontrare i ragazzi delle scuole di Torino, insieme al suo amico Primo Levi, per raccontare la sua esperienza di deportato e testimoniare quel periodo.
Il nostro pomeriggio prende inizio dalla testimonianza del comandante partigiano Franco Berlanda, che, concentrato sui suoi appunti, viene invitato a parlare dal vicepresidente del Consiglio Regionale del Piemonte, Roberto Placido. Parole diverse da quelle che ci aspettavamo, che non raccontano l’esperienza personale di questo partigiano, ma i sentimenti di un UOMO.
Citando le canzoni “La guerra di Piero” e “Bella ciao”, racconta i tre aspetti della paura della morte vista dai giovani combattenti: quella “semplice” del morire, quella dell’essere ucciso dal nemico e la responsabilità del comandante di emanare l’ordine di sparare. Per questo, la necessità e il dovere di ricordare, perché “la nostra storia entra dentro la nostra memoria” non solo per chi l’ha vissuta direttamente, ma anche, e soprattutto, per le generazioni future, che egli invita a riflettere sul significato dei monumenti, in quanto portatori di memoria (memini, meminisse = ricordare).
Estremamente positiva è parsa a tutti noi ragazzi, e anche alle professoresse italiane e polacche, la testimonianza di Ferruccio, che è riuscito a trovare la luce anche dove non ce n’era, grazie al sentimento dell’amicizia. Questa è stata l’unica rivincita e possibilità di salvezza per i prigionieri, che, uniti e resi uguali da sofferenze comuni, sono comunque riusciti a non trasformare la rabbia in odio e a mantenere l’umanità che i loro carnefici, invece, avevano perso.
La condivisione di emozioni, sentimenti ed orrori hanno creato tra loro legami forti e indissolubili, che sono durati nel tempo, testimoniando il lato positivo dell’esperienza, prova concreta della forza e della volontà degli uomini.
La domanda che sorge in tutti noi è forse la più personale e toccante per loro, ovvero come sia possibile superare tali traumi recuperando la normalità abbandonata nel passato.
Le risposte mostrano la profonda soggettività del loro vissuto e i due testimoni ci raccontano e ci aprono due scenari molto diversi tra loro.
Franco, pimpante e arzillo, racconta di una normalità ritrovata studiando, iniziando una carriera, che come egli stesso afferma, non si sarebbe mai immaginato, quella dell’architetto. Ferruccio, al contrario, con il peso di dolori più grandi, come quello della vita nel lager e dell’aver appreso la notizia della tragica uccisione del padre, trova l’appoggio di un amico, Primo Levi, che lo invita ad accompagnarlo per informare e insegnare ai giovani la loro storia. “Dio è morto” cantano dei ragazzi nella desolazione del campo di Birkenau: con grande trasporto egli ricorda quell’ incontro come particolarmente significativo, citando la risposta di un giovane: ” E’ questa la commemorazione ufficiale del campo di Aushwitz”.
Con grande emozione, inoltre, racconta del padre, di come sia stato crudelmente ammazzato dai fascisti e dallo sconvolgimento da lui tuttora provato per aver desiderato, anche solo per un attimo, di vendicarsi.
Per concludere, vogliamo citare una frase di Ferruccio che ci è rimasta particolarmente impressa e che rappresenta il punto chiave del progetto Comenius che stiamo svolgendo: “Abbiamo il dovere di mantenere il rapporto con quella realtà ed è un compito che non dobbiamo mai sottovalutare….l’attenzione è qualcosa che “spara” a quelli che non vogliono sapere”
Clara Dagosta
Aureliana Pili