La Fondazione Carolina ha fatto partire una petizione online per fermare in qualche modo il fenomeno “Squid Game”. La serie di Netflix spingerebbe i giovanissimi a replicare i “giochi” violenti presenti negli episodi. Inaccettabile!
In realtà, non è un fenomeno così nuovo e inaspettato. Si grida allo scandalo senza pensare che l’imitazione della violenza, in fondo, è onnipresente nei giochi dei bambini, che si tratti delle generazioni più abituate ai soldatini o di quelle appassionate di Power Rangers, Tartarughe Ninja o Dragon Ball. Certo, anche in passato i tentativi di censura non sono mancati, basti pensare al caso di Ken il Guerriero negli anni novanta del secolo scorso. Quello che però è da mettere in chiaro è che, alla base, il dito andrebbe puntato – più che sui media – sugli adulti irresponsabili, perché, alla fine, ciò che guarda un bambino in tv dovrebbe essere monitorato da un adulto. E se un bambino guarda una serie del genere, molto probabilmente non è così seguito tra la mura di casa.
Perché allora lanciare una petizione per il ritiro di Squid game dal catalogo Netflix? Per proteggere i bambini o per non ammettere di non riuscire a seguirli?
La stessa Fondazione Carolina ha dichiarato che si tratta della sconfitta dei parental control e della crisi della genitorialità; ma, proprio per questo, dovrebbe finire qua. Il problema c’è, si ammette di averlo, lo si risolve e fine. Ma invece no! Si sente la necessità di cancellare, censurare, eliminare. Forse perché è molto più facile.
Ma stiamo scherzando? Censurare? In un paese democratico e libero come il nostro, il pensiero censorio non dovrebbe avere cittadinanza, a maggior ragione quando si tratta del piccolo o grande schermo.
Al di là dei pareri personali sulla serie, che potrebbe non brillare per regia, trama, o messaggi che trasmette, la censura non va legittimata, soprattutto per mascherare problemi ben più seri legati all’incapacità dei genitori di educare i propri figli.
La stessa Fondazione, nel disclaimer che precede il bottone dell’adesione alla petizione online, precisa anche che determinati contenuti non possono essere fermati “perché abbiamo delegato al web la socialità dei nostri figli, perché abbiamo smesso di essere il filtro tra l’infanzia e l’età consapevole.”
Dunque la colpa sembra generazionale, probabilmente dettata dall’ignoranza nell’uso degli strumenti social, rispetto ai quali forse non c’è neppure un reale tentativo di comprensione. Le dinamiche della rete sono diverse da quelle reali, sebbene spesso si incontrino. Non è raro vedere madri o padri che per tenere buono il pargolo gli somministrano una massiccia dose di internet, per poi gridare allo scandalo dovuto all’abuso dello stesso. Ironico, no?
È vero, non c’è una vera e propria educazione al web, ma non serve una laurea per usarlo: spesso basta la logica e il buon senso, sia da parte degli utenti diretti (compresi bambini e ragazzi), sia da parte di coloro che dovrebbero tutelarli.
Purtroppo, però, questo non è altro che l’ennesimo esempio di questa smania di cancellare tutto ciò che non aggrada o che è ritenuto non adatto; sembra ricalcare la famosa cancel culture che tanto piace oltreoceano.
È curioso quanto nel Belpaese ci si indigni per qualunque scivolone di una personalità in voga, per la serie del momento, mentre non si vanno a toccare programmi come Striscia la Notizia, Le Iene, o Fuori dal Coro. Programmi in cui la disinformazione, del becero razzismo e sessismo, la propaganda politica e i servizi fatti più da “giornalai” che da giornalisti sono all’ordine del giorno. Certo, non andrebbero censurati, ma c’è da domandarsi perché queste trasmissioni non siano poi oggetto di petizioni online richieste a gran voce da genitori preoccupati. Due pesi, due misure?
La speranza è che ci sia presto un’inversione di tendenza, un cambio di rotta culturale, in modo che “capire e discutere” sostituiscano sempre il verbo “cancellare”.
Fabio Cannizzo