Quale studente non si chiede, al suo primo incontro-scontro con Tasso, Alfieri, Leopardi, “ma questo non aveva nient’altro di meglio da fare?” Poi però lo stesso giovane va a casa ed è triste perché la “tipa” che gli piace “un botto” non gli ha scritto e pensa che il mondo faccia schifo, e che tutti ce l’abbiano con lui, e che non ci sia via d’uscita per la sua tristezza. Vengono allora un po’ in mente le parole di uno che ha definito questa cosa “cosmica”. Salinger diceva “i poeti prendono il tempo atmosferico così sul personale!”. Quasi tutti in realtà continuano a prenderlo “così” sul personale, ma quasi nessuno pensa minimamente di metterlo su carta, perché implica lavoro mentale e lo trova, sostanzialmente, inutile. Viviamo in un’epoca in cui “Denaro e Tecnica” , come scrive G. Conte, sono divenuti i valori più alti a cui l’uomo aspira. E’ possibile certo trovare un collegamento tra lo sviluppo della mentalità e la concezione dell’arte col nostro derivare dal pensiero borghese, con cui giustificare il nostro assomigliare più al logico Albert che all’irruento Werther, ma forse la questione è più semplice e va ricercata nel presente. Nessuno ha più voglia di rischiare. Il “rischio” è ormai confinato al solo mondo degli investimenti. Nessuno ha più voglia di mettersi in gioco pubblicando versi, o scrivendo un poema in cui spiega la sua visione della realtà. Tutti tendono ad arrivare ad un lavoro, il meglio retribuito possibile, anche se non piace, e ad accontentarsi di questo. Non si può biasimare l’uomo per avere fame, chiaramente, ma si può biasimare la società civile in cui si ritrova. Non ci sono più le corti di Ariosto e Dante. “Poeta professionista” è sinonimo di “povero”: nessuno (o quasi) dà più un pasto caldo perché una persona scrive in versi, a meno che riesca a “sfondare” pubblicandoli. Invece, forse, una poesia non farebbe poi tanto male, in mezzo a tutti questi conti. Si può, certo, spezzare una lancia in favore di quei venticinque (gli stessi che leggono le peripezie di Renzo e Lucia) che ancora ci provano a mettere se stessi su un pezzo di carta, come giustamente nota Maurizio Cucchi. Il 90 % delle persone sembra però lobotomizzato in pieno stile Arancia Meccanica, e sembra che il Grande Fratello o l’ Isola dei Famosi siano più cool di una poesia (letta o scritta). Però l’ispirazione, quella cosina che ci ricorda molto la lampadina di Archimede Pitagorico, può essere trovata dappertutto, da una foglia ad una guerra. E allora, chi rimproverare? L’atrofia dei cervelli, imbrigliati verso la società del “successo facile”, la mancanza di quello spirito di iniziativa che apparteneva a tutti i più grandi letterati del passato, e anche la società di massa. C’è anche il fatto che ora, per fortuna, si sta meglio di una volta: il capitalismo (e ciò che ne consegue) fornisce alle persone un’illusione molto materiale di poter raggiungere la felicità. Questo apparente benessere e la società della comunicazione di massa spingono le persone a voler condividere i propri pensieri su un social network o in televisione, senza realmente spingerle a riflettere sulla propria condizione, e sull’importanza dei propri drammi. Si è smorzata la vena artistica, in favore di un’ attitudine alla finanza ed all’imprenditoria. Alla fine, aveva ragione Eugenio (Montale). L'”isterismo” dello spettacolo, non permette a quella cosa piccola, innocente e discreta che è la poesia di crescere e diventare grande, magnifica, toccante. Cos’è allora che spingeva le teste del passato a scrivere? Il pensiero di mettere su carta ciò in cui credevano, con la coscienza di incarnare lo spirito di tutti (esempio ne è l’ampio groppone di Dante, che porta l’umanità a spasso per l’aldilà), ma con la consapevolezza di essere pochi, speciali e, diciamolo, superiori agli altri. In fondo, i poeti erano quelli che da piccoli volevano diventare astronauti o cowboy, e poi, cresciuti, lo sono diventati. Hanno squarciano il velo della soggettività per arrivare per parlare al cuore di tutti, nel modo più diretto, colorato e vivo possibile. Purtroppo, ora, quelli che, infanti, volevano fare gli astronauti, diventano da grandi ingegneri, architetti ed economisti. Henri Bergson, ne “Il riso”, illustra il comico facendoci immaginare di essere in una sala da ballo con le orecchie tappate al suono della musica: i ballerini che volteggiano in sincrono ci sembreranno ridicoli e ci faranno ridere. Il mondo, nei confronti della poesia, fa lo stesso: la studia, tappandosi le orecchie al suono della bellezza e della veridicità di alcuni versi. E allora gli sembra ridicola, e, nel migliore dei casi, si mette a ridere.
Riccardo Tione (5B)