Tra una ninfa e l’altra, si racconta che Odisseo abbia fondato, così, quasi per scommessa, una piccola colonia ai confini del mondo (il mondo dei greci era leggermente più piccolo del nostro), che venne subito chiamata “Olisipo”. Si tratta di un nome parlante, come tutti i nomi greci, e significa pressappoco “Lisbona”. Se il multiformemente ingegnoso Odisseo fosse ancora vivo, potrebbe guardare con una punta di orgoglio quel piccolo agglomerato di pastori e casupole di paglia, che in appena tremila anni è diventata una delle più belle capitali dell’Unione Europea e dintorni. La giovane brigata dei 36 alunni del Convitto Umberto I ( classi b e c), per rifugiarsi in luoghi più sicuri dalla peste che inevitabilmente affligge chi frequenti la V°, si sono recati proprio nella capitale del Portogallo, per i cinque canonici giorni della gita. In questo arduo quanto ameno compito erano guidati dai professori Pizzala, Grasso, Scavo e Iavarone. Per godersi appieno lo spirito del viaggio (ossia spendere meno), si è scelto l’ostello in luogo del più confortevole ma poco “autentico” albergo. E non si è fatto male: lo YesHostel, situato al centro della città, permetteva ai nostri di avere un ventaglio di possibilità a portata di mano. Quel che più stupisce di Lisbona è che non è una città fatta per stupire. Sembra quasi emblema di quella meravigliosa e rassicurante “metriotes” greca, ed è permeata da un senso di pace e tranquillità perenne: a larghi viali piastrellati (simili alla nostra Via Roma, ma meno altezzosamente nobili), si alternano enormi piazze che, come nel caso di Plaça de Comercio, offrono una vista sul Tago (e sull’Atlantico, in cui il Tago si getta) degna di certe descrizioni di Rousseau e Leopardi. Una città umile, ma dignitosa, abitata perlopiù da anziani (pare, infatti, che i giovani non siano ancora stati inventati in Portogallo, se non in forma di torme di studenti di cui noi facevamo parte). L’unico caos che viene a crearsi nella capitale nasce dall’apparente incapacità dei tassisti di guidare in modo responsabile, e allora si assiste ad ogni curva ad una piccola Parigi-Dakar. In realtà, Lisboa è una città molto nuova. Delle costruzioni precedenti il 1755 non si è salvato molto. In quell’anno, infatti, la città fu scossa da un tremendo terremoto, di volteriana memoria, e poco della città vecchia è rimasto intatto. La maggior parte dei palazzi sono stati restaurati, o si è costruito sulle loro macerie. L’italo invasor si è subito mostrato disponibile alla visita di tutto ciò che la ridente città poteva offrire. La torre del Belèm, e la sua claustrofobica scaletta che porta sino in cima, da cui si può avere uno stupendo scorcio del fiume Tago. Il Monastirio ed il suo chiostro, un piccolo cortile chiuso da un colonnato, di un’ indefinibile tonalità di bianco, totalmente immerso dalla luce del dolce sole portoghese, sempre mitigato dal vento. Il castello di Sao Jorge, e la sua torre di Ulisse, che con un sistema di specchi riesce ad abbracciare la visuale della città a 360°. Ed ancora le visite extraurbane, a Sintra, a Cascais e al Cabo da Roca. I primi due, paesini tipicamente iberici, con le loro stradine e gli edifici bianchi, dove sembra che l’uomo abbia trovato il giusto compromesso con la natura, riuscendo a coabitarci. Il terzo, è di certo uno degli spettacoli più emozionanti che si potrebbero incontrare: il punto continentale più ad ovest d’Europa lascia di stucco i nostri barbari viandanti, con i suoi prati che si gettano a strapiombo in un mare dello stesso colore del cielo. Si tratta, probabilmente, anche del luogo più ventoso d’Europa, ma poco importa: i nostri bruti si sono lasciati incantare da questo paesaggio degno di Turner, e per coronare la scena si sono dati al canto civilizzatore, ed hanno riscoperto quasi l’intero repertorio di Mina, Battisti, De Andrè. Il bilancio si presenta dunque altamente positivo, ma sono le tipiche conclusioni da viaggiatore, in cui tutto è magnifico o terribile, perchè, certo per una mancanza di tempo, non si riesce a cogliere che la superficie della realtà delle cose. A ben vedere, però, è chiaro come il Portogallo non sia un paese così idillico. La povertà e lo spettro della tanto temuta crisi colpisce certamente i cittadini, alcuni dei quali non si fanno scrupoli a spacciare apertamente, o a chiedere l’elemosina, o a rubare per sopravvivere. Fioccano un’infinità di luoghi comuni sui posti visitati, come “è una città dove il vecchio si fonde col nuovo”, o “è una città dalle mille contraddizioni”, frasi che sono al contempo vere e false un po’ per qualsiasi oggetto. Quel che si può dire di Lisbona è che si tratta di una meta intrigante, viva, e soprattutto molto umana: noi quaranta “pizza, spaghetti e mandolino” siamo stati accolti a braccia aperte da una città che ci ha dato molto, e che molto avrà sempre da offrire, con i suoi bar soleggiati, le sue onnipresenti piastrelle azzurre, i suoi mille edifici bianchi e i suoi abitanti gentili. Assomiglia a quei libri così belli che non hai voglia di leggere, ma di centellinare, per poterli gustare fino in fondo.
Riccardo Tione (5B)