Ed è lì, sola come sempre, accompagnata solo dai suoi pensieri.
Pensieri. Tanti, troppi, tanto da minacciare di farle scoppiare la testa da un momento all’altro.
E non è solo una sensazione, perché davvero si sente un grosso peso sul collo, un groppo in gola troppo forte, un’ansia che le impedisce di ragionare razionalmente.
E sapete qual è l’aspetto che più la fa innervosire di tutta la faccenda?
Che non si è sentita sempre così.
C’erano momenti, anni prima, in cui davvero le era sembrato di poter far suo quel sentimento tanto agognato eppure difficile da raggiungere chiamato felicità.
Felice, si era sentita anche solo lontanamente felice.
Poi qualcosa era cambiato, non sapeva come, non sapeva perché. O forse lo sapeva, ma ora non aveva voglia di pensarci, perché se ci avesse ragionato probabilmente sarebbe scoppiata a piangere, come faceva sempre sempre.
Fatto sta che poi le cose erano cominciate ad andare male. All’inizio credeva di poterlo gestire, questo continuo senso d’ansia che ormai era deciso a far parte di lei. Ma ben presto tutto era diventato insostenibile.
Si ricorda ancora come erano andate le cose.
Un pomeriggio, era rientrata da scuola. Da sola in casa, come la maggior parte delle volte. Studiare? Quella sera non le andava. Avrebbe voluto divertirsi, quel giorno le cose sembravano essere andate meglio. Sarebbe tornata di nuovo a sentirsi come prima?
Non ne era troppo convinta, ma ci sperava. Ancora.
Poi la lametta, quando era entrata in bagno. E la curiosità, motivata dal bisogno che aveva di provare. Provare, solo una volta. Un taglietto, un po’ di dolore. Nulla in confronto a quello che aveva provato negli ultimi tempi.
I giorni passavano, dopo quella prima esperienza e lei pensava. Come al solito, forse di più. Capire, cercare di focalizzarsi su quella sensazione che aveva provato mentre lo faceva. Liberazione? Adrenalina? Forse era qualcosa di simile. E se avesse avuto bisogno di quella sensazione di nuovo? Se forse poteva aiutarla ad andare avanti nonostante tutto?
Riprovare. E continuare, sempre più spesso, sempre più in profondità se possibile.
Era forse pazza? Non le importava più ormai.
Era giovane, le ferite che aveva non bastavano a raccontare le sofferenze di una vita intera.
Gridava, protestava con la sua pelle, perché la voce, le grida, non sarebbero bastate da sole a esprimere e cacciare via tutto il dolore che sentiva.
E si tagliava, sì. E allora?
Che c’era di male in questo?
“Perché lo fai? Devi smettere!” inutili parole che altrettanto inutili persone le rivolgevano quando sporadicamente si accorgevano della sua situazione.
Se solo fosse stato facile. Se solo lo avesse desiderato.
Le ignorava: ‘fanculo tutti, ‘fanculo il mondo. Lo stesso mondo che non era mai stato in grado di accoglierla, mai in grado di comprenderla o farla sentire accettata.
E continuava. Sì, continuava.
Problemi?
La lametta ormai era diventata la sua migliore amica. L’unica in grado di capirla.
“Eppure sprofondavi di nuovo nella depressione, non è vero? Nonostante tagliarti sembrasse aiutarti” dice il signore con cui ha parlato nell’ultima mezz’ora.
“Sì. È così” risponde senza rifletterci troppo
“Tutto questo non ti ha mai fatto pensare? Riflettere?” le chiede con un’espressione interrogativa.
“Dove vuole arrivare scusi?” risponde lei, un po’ scocciata.
“Pensa, ragazza!” esclama lui, infervorandosi.
“Pensare” scoppia a ridere, di quelle risate sarcastiche e sfacciate che riserva alla maggior parte della gente “io non posso pensare. Sono instabile mentalmente, ricorda?”
“Cazzate. Non c’ho mai creduto agli psicologi. Ciarlatani, così penso io”.
“Mia madre non la pensa così a quanto pare”.
“Tua madre è un’altra ciarlatana”.
“Non posso che essere d’accordo, sa?” rise.
“E allora!” alza il tono lui “Allora devi capire che, per quanto ti doni un’effimera felicità, dopo stai peggio di prima. Io lo so, credimi. Ora vado, cara. Pensa a quello che ti ho detto d’accordo?” le fa l’occhiolino quell’anziano signore, alzandosi.
“Arrivederci” accenna un sorriso .
“Aspetti!” lo richiama.
“Dimmi cara”.
“Lei c’è riuscito? L’ha … l’ha superato?” domanda incerta.
“Io? Io lo volevo” sorrise di nuovo lui “Arrivederci”.
Lo voleva. Lo voleva. C’era riuscito, lui.
E lei? Lo voleva, lei? Ma voleva cosa?
E se si fosse posta la domanda sbagliata per tutto questo tempo?
Guardati il polso.
Cicatrici, dolori antichi apparentemente guariti. Guariti.
È questo che sono le cicatrici no? Segni ancora visibili di ferite passate, ormai guarite.
Guarite per modo di dire, nel suo caso.
E se forse dopo tanto tempo avesse capito perché lo faceva?
Quei tagli, quelle cicatrici, erano la sola cosa che poteva controllare. Si infliggeva dolore, è vero, ma poi lentamente quelle ferite si rimarginavano, e lei osservava. Osservava con attenzione quel processo di guarigione. Perché le ferite guarivano. E non ci mettevano nemmeno poi tanto.
Quelle lesioni non erano nient’altro che una rappresentazione più o meno fedele delle vere ferite che aveva: quelle che si portava dentro.
Tristezza, depressioni, incomprensioni, voglia di scappare. Opinioni troppo pressanti delle persone. Sarebbe mai riuscita a sentirsi meglio? Non lo sapeva.
Ma quelle ferite le davano per poco tempo l’illusione che ciò fosse possibile. Perché se un taglio guarisce, allora può guarire anche la tristezza che ci portiamo dentro, non è vero?
E in questo perdersi nel labirinto sbagliato, in questo crearsi una sua realtà in cui non faceva altro che sprofondare sempre di più, non si rende conto che lei non era sola.
Sì, perché c’era tanta altra gente nella sua stessa situazione, ma lei pensava di essere l’unica.
E in questa convinzione sempre più radicata si escludeva dal mondo, che forse non era poi così cattivo come credeva.
Perché anche il mondo soffriva, anche il mondo a volte si sentiva incompreso come lei, anche se lei non lo sapeva.
E se avesse provato finalmente ad aprirsi a lui?
Perché la domanda giusta da porsi non era tanto se volesse smettere di tagliarsi. Tagliarsi era solo una stupida causa collaterale di ciò che provava.
Prova a pensarci, ragazza, andiamo. Qual è?
Non lo so. Non lo so.
Come ti sentivi prima di farlo? Ma non un giorno prima, molto tempo fa.
“Papà, è Natale, è Natale!!” gridò una bambina di circa cinque anni, gli occhi scuri che brillavano nella luce fioca del salone.
“Lo so, piccolina. Tanti auguri” le sorrise un uomo di mezza età. Un’espressione stanca, eppure gioiosa.
“Regali, papà, regali!” gridò di nuovo la piccola.
“Prima abbracciami, tesoro” .
“Papà!!!!!” rispose lei, precipitandogli addosso.
Risate, gioia. Così ricordava quel Natale. La sua famiglia. Non avevano niente fuori dal comune; non erano ricchi, lei non aveva ricevuto regali particolari quel giorno. Eppure erano stati felici.
E lei? Voleva esserlo lei?
Perché il cammino sarebbe stato lungo, perché non sarebbe stato facile.
Ma un giorno ce l’avrebbe fatta.
Ce la poteva fare.
Quella bambina che sorrideva, era lei.
Felice.
Elisabetta Gucciardi (3B)