Quante volte ci è capitato di vedere questo tipo di notifica apparire sullo schermo del nostro telefono? Troppe foto, troppi video, a volte perfino troppe applicazioni che intasano la memoria dei nostri fedeli smartphone e che siamo costretti a cancellare, oppure, per i più furbi, a trasferire su un altro dispositivo. Per fare spazio. Per nuove foto, per nuovi video di seratone in discoteca e per nuovi social. Cosa importa di quello che è successo un mese fa? Tutto eliminato! Perché la memoria non basta mai.
Eppure, c’è un’altra memoria, molto più importante, che rischia di esaurirsi come quella degli smartphone. Quella con cui cresciamo e viviamo quotidianamente. Quella funzione psichica – come la stessa Treccani ci ricorda – di riprodurre nella mente l’esperienza passata (immagini, sensazioni o nozioni), di riconoscerla come tale e di localizzarla nello spazio e nel tempo. Certo, mettere in discussione un rifermento culturale come la Treccani potrebbe sembrare azzardato, ma, questa volta, pare che manchi qualcosa, soprattutto se si pensa al genere umano nel suo insieme.
La storia, si sa, è un po’ come la moda: prima o poi ritorna. E diventa compito della memoria quello di aiutarci a fare scelte che già in passato si sono rivelate vincenti, evitando così quelle che hanno causato solo morte e distruzione.
Anche la memoria, tuttavia, ha dei vuoti di memoria.
È da poco trascorso il 27 gennaio, la Giornata della Memoria che celebra la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz. Questa giornata, oltre che di commemorazione per tutte le vittime della più grande tragedia causata dall’uomo contro l’uomo stesso, dovrebbe essere una sorta di inno contro la violenza, contro i pregiudizi e contro le discriminazioni di razza, ricordando che di “razza” c’è solo quella umana. Purtroppo, però, negli ultimi giorni, in Italia non solo ci sono stati diversi casi di razzismo contro gli ebrei, ma anche contro il popolo cinese. È la cosiddetta sinofobia – ossia paura e/o avversione verso le persone di etnia cinese – che sta diventando protagonista in tutta Europa in seguito alla diffusione dall’epidemia del Coronavirus. Questo virus, e la velocità con la quale sta dilagando in tutto il mondo, non ha fatto altro che provocare un panico sociale tale da sfociare in pregiudizi ed odio razziale. Odio che, razionalmente, è del tutto infondato. Infatti, seppure il virus si sia originato nella città cinese di Wuhan, il contagio non ha nulla a che vedere con l’etnia. Ovviamente ad aggravare la situazione ci sono l’onnipresente ignoranza e la mancanza di informazione che portano a credere all’infinita ondata di fake news che circolano online.
Nell’estate del 1935 la propaganda nazista antiebraica comparve nei negozi e nei ristoranti tedeschi con i famigerati cartelli “vietato l’ingresso agli ebrei”. Il 31 gennaio 2020 a Roma la portavoce dell’albergo Relais Fontana di Trevi affigge un cartello che vieta l’ingresso alle persone provenienti dalla Cina. Senza dubbio non ci sono una discriminazione ed una violenza paragonabili alla politica razziale della Germania nazista, ma alcune analogie sono inquietanti. Ancora una volta l’uomo si sta facendo dominare dall’odio, dalla paura e dall’egoismo invece di ascoltare il buon senso ed offrire a queste persone, già infinitamente preoccupate per i propri cari, umana solidarietà.
Negli ultimi 80 anni ci è stato insegnato ad allarmarci ogni qual volta sentiamo anche solo nominare le parole “razzista”, “fascista” o “nazista”, ma forse non abbiamo ancora capito quale sia il loro vero significato. Troppo facile in questi giorni fare battute sui cinesi e giustificarsi con un semplice “Ma stavo scherzando, era solo una battuta”. Troppo facile dire no alla violenza sulle donne il 25 novembre, per poi commentare sotto la foto di una ragazza vestita in maniera un po’ più attillata che “forse è lei che se l’è cercata”. Troppo facile andare al Gay Pride, fare striscioni con i colori arcobaleno e poi giudicare egocentrici quei ragazzi che decidono di truccarsi. Troppo facile postare su Instagram il 27 gennaio una foto dei campi di concentramento con allegata una bella citazione di Primo Levi, per poi girare l’angolo e cambiare strada solo perché una persona con i tratti asiatici ci viene incontro.
Forse il problema di fondo è che ormai le parole non hanno più alcun valore per la nostra società. Diciamo “ti amo”, “ti odio”, “mi fai schifo” con una facilità senza eguali e la maggior parte delle volte senza nemmeno darci peso. Abbiamo già dimenticato quale sia il loro vero valore? La memoria è già esaurita? Tutti i file già eliminati?
Dovremmo tutti renderci conto della direzione in cui stiamo andando, del baratro di odio, violenza, indifferenza ed egoismo in cui il nostro mondo sta sprofondando. Dobbiamo fare immediatamente retromarcia e, mentre torniamo indietro, fare anche un bel backup.
Annalisa Maione