È il 30 gennaio 2017 quando Ali Kazemi si sveglia e si rende conto che il giorno della sua morte è arrivato. Il sole non è ancora sorto, ma non manca molto ormai. Qualche minuto ancora, poi si ritroverà con una corda attorno al collo e con il corpo sospeso nel vuoto che ondeggia sospinto dal vento. Ha appena 22 anni, è troppo giovane per morire, ma il suo paese, l’Iran, non perdona, non lascia correre. Sono passati sette anni da quando ha accoltellato quell’uomo, ma non ha dimenticato, nessuno ha dimenticato, tantomeno il suo Stato. L’Iran non dimentica mai e poco importa che si tratti di uno sbaglio compiuto quando ancora Ali non era neanche maggiorenne. È omicidio e la legge punisce la morte con la morte. La legge è uguale per tutti. Questa volta, però, è spietata, quasi crudele. Ali non è tranquillo, ma ha ancora una speranza. Il suo avvocato sarà da lui tra poco, lo aiuterà. Dopotutto, è previsto da quella stessa legge che condanna a morte i minorenni: l’avvocato deve essere avvertito dell’esecuzione del suo assistito. Invece, l’uomo non arriva e Ali Kazemi non avrà mai la possibilità di leggere sui giornali che in realtà l’avvocato è all’oscuro della data della sua esecuzione. Come lo sono i suoi tormentati familiari. Il giorno prima, sono passati per una visita, l’ultima. Il 29 gennaio, infatti, le autorità li hanno avvertiti: Ali sarebbe stato impiccato la mattina seguente. I genitori e i parenti corrono da lui, nella speranza di poterlo almeno salutare e stringere un’ultima volta. La madre è in lacrime, il padre a stento si trattiene. Per loro, quel giovane uomo è solo un bambino, non un assassino. Per loro non si è macchiato del peccato peggiore di tutti. Per loro, per una rissa lontana nel tempo, è stata rovinata la vita a un ragazzo di soli 15 anni.
Ali, invece, sa di essere colpevole. E anche se non aveva intenzione di ferire nessuno, il pugnale che aveva con sé ha agito per conto suo, volando in aria e conficcandosi nel petto dell’uomo che pochi istanti prima gli aveva tirato un pugno. Anche lo Stato sa che è colpevole, per questo il ragazzo deve morire impiccato. Ai suoi genitori, viene successivamente detto che la sentenza è stata sospesa. Questa volta, sua madre piange perché è tanto felice da starne male. Non sa la verità, nessuno la sa fino a quando, al contrario di ogni convinzione, Ali Kazemi viene impiccato il 30 gennaio all’alba. Proprio nella stessa mattina durante la quale sua madre era stata rassicurata un ultima volta. L’ufficio del procuratore e la direzione del carcere hanno tormentato la famiglia del condannato con informazioni contraddittorie, prima con un “Morirà impiccato”, poi con un “La pena è sospesa”. Infine, la notizia: giustiziato! È stata data loro la speranza per poi essere strappata via subito dopo.
Questa volta, la giustizia è stata crudele. Forse, però, non è stata proprio giustizia, forse non è stata proprio seguita alla lettera la legge. Il sole è appena salito nel cielo. Mentre Ali Kazemi lo guarda, e muore con una corda legata attorno al collo, muore anche un altra minorenne: Mahubeh Mofidi. Lei è stata condannata alla pena capitale perché ha ucciso il marito poco dopo il matrimonio. Quando è successo, aveva solo 17 anni. Come è stato condannato a morte un altro minorenne, Amirhossein Pourjafar, non più di un mese fa. Ali Kazemi non è il solo che ha trovato una morte ingiusta e crudele. Prima di lui, dal 2005, altri 88 minorenni sono stati privati della vita per reati che hanno compiuto ancor prima di essere adulti e responsabili delle proprie azioni. Dopo di lui, altri 80 attendono di essere uccisi da una giustizia che non ha niente di giusto.
Isabella Scotti