Moi, je suis Charlie?

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Nove Gennaio duemilaquindici, venerdì.

Per la 5^B, è una giornata tutto sommato clemente: due ore di religione, due ore di storia, un’ora di compresenza di storia in francese/storia in italiano e un’ora di storia in francese.

Una full immersion, insomma.

Beh, prendendo i libri dall’armadietto scivola a terra il tomo 3b di Storia e si apre sulle ultimissime pagine. Il titolo campeggia: “Come sta la libertà di stampa?”.

Caro libro di storia, la libertà di stampa, quella che tanto stava a cuore a Voltaire, è messa molto male: il sette gennaio anno corrente, tre (o più?) terroristi e fanatici religiosi si sono introdotti nella redazione dello “Charlie Hebdo” e hanno ucciso il direttore e altri nove collaboratori.

Di cosa fossero colpevoli è presto detto: di fare della satira d’attualità, di esercitare un diritto, di essere vignettisti, di svolgere il proprio lavoro.

La libertà d’espressione nasce ai tempi della guerra civile inglese, nel 1644, con l’arringa di John Milton “A Speech for the Liberty of Unlicensed Printing”: il rifiuto della censura cominciava ad essere inteso come il pilastro, la colonna portante del libero agire umano.

Nel mondo, secondo “House of Freedom”, un sito che si occupa di stilare una classifica annua dei Paesi in cui più, o meno, la stampa è libera, la stampa è effettivamente libera in 63 Paesi, lo è solo parzialmente in 69 (fra cui l’Italia) e non lo è affatto in 67: questo vuol dire che solo il 31,7% della popolazione mondiale ha accesso completo all’informazione, mentre il 68,2% ignora del tutto o in parte quanto accada ogni giorno (più o meno) intorno a sé.

Ci sono voluti notevoli sforzi e una discreta quantità di tempo per giungere ad uno stato di libertà perlomeno parziale, e di fronte a questi dati non si può non chiedersi come si possa parlare di progresso, di sviluppo, parlare di evoluzione, quando a 317 anni anni da quel famoso discorso di Milton ancora esiste chi, con la forza, mette a tacere gli esponenti di una diversa opinione, un diverso punto di vista sulle cose.

Molti concordano, ad ogni modo, che soffocare nel sangue una voce che dà fastidio non sia il modo migliore di debellare determinate convinzioni e anzi, contribuisca a rafforzarle: dopo la divulgazione della notizia, vignettisti di tutto il mondo si sono uniti nell’indignazione pubblicando svariate vignette in cui, dai frammenti della matita di Hebdo, se ne originano molte altre, di fatto considerando il direttore del periodico come un martire alla libertà.

Ora, tenendo presente che nulla consente a chicchessia di interferire con i diritti altrui e che è vergognoso che si pongano dei limiti al modo di esprimersi delle persone, è perlomeno lecito domandarsi quanto questa situazione sia sana, se sia concepibile che si denigrino i valori di una civiltà estranea alla nostra in maniera tanto violenta, se sia necessaria questa aggressività, questa gratuità nello scimmiottare e nell’essere tanto irrispettosi della sensibilità altrui.

Sono quattro milioni le persone che si sono riunite a Parigi, in piazza, in una protesta generale contro il terrorismo, contro l’oppressione, inneggiando ad una sedicente libertà che altro non è che indisposizione all’apertura, al dialogo, che è un puro e semplice esempio dello scontro di civiltà che tanto pare lontano, quanto in realtà è attuale e vicino.

Se esiste una colpa, questa è di entrambe le fazioni (ammesso e non concesso che davvero siano due) e che invece di agitare in aria le matite con fare sdegnato, si cerchi l’analisi di se stessi e del proprio impegno nel cambiare questa situazione.

Certo che è facile parlare senza proporre soluzioni e la linea che bisognerebbe seguire è quella del confronto e del dialogo.

E, se non è praticabile, insistere, fare la prima mossa, non cedere nel tentativo di trasmettere i propri valori democratici e liberali, in un’ottica di apertura ad un mondo che cambia e si evolve, nostro malgrado e per (s?)fortuna, giorno dopo giorno.

Giulia Beltramino (5B)

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