Murakami: ritorno al mito

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– E se le cose non si possono comunicare, allora meglio non tentare neppure di spiegarle.

– Nemmeno a se stessi? – chiedo.

– Già. Nemmeno a se stessi, – risponde. – Forse è meglio non spiegare niente nemmeno a se stessi.

Kafka sulla spiaggia (2002)

 

Verso gli anni ’50, il professor Hans Robert Jauss teorizzò il concetto di orizzonte d’aspettativa del lettore: semplificando, l’orizzonte d’aspettativa è ciò che un lettore si aspetta inconsciamente da un libro in base alle proprie esperienze narrative pregresse, ossia in base a ciò che ha incontrato lungo il suo percorso, dalle narrazioni orali a quelle cinematografiche o scritte. L’aspettativa può essere più o meno evidente: se leggiamo una favola in cui il protagonista affronta una prova e poi un’altra, ci aspetteremo istintivamente che ne debba affrontare una terza; se a metà di un romanzo l’antagonista sparisce misteriosamente, ci aspetteremo il suo ritorno prima della fine. Non si tratta di stereotipi o cliché, ma di meccanismi collaudati che, almeno secondo i canoni della letteratura occidentale, permettono alla narrazione di svilupparsi e scorrere efficacemente. Del resto, se a metà dei Promessi sposi Don Rodrigo facesse coming out e le restanti duecento pagine s’incentrassero su come Renzo e Lucia si ingegnano a pagare il muto, sarebbe piuttosto noiosetto.

Tuttavia, stando a Jauss, è proprio quando l’orizzonte di aspettativa viene tradito che il lettore ricava maggiore piacere e maggiore guadagno (intellettuale) dalla lettura: l’elemento atteso, se non si presenta o si presenta diversamente, genera un senso di straniamento che spinge il lettore a riconsiderare e riprogrammare il proprio orizzonte d’aspettativa o, detto in parole povere ma più evocative, ad aprire la mente.

Posta questa premessa teorica e passando ai fatti, se c’è un autore contemporaneo che oggi può sconvolgere l’orizzonte di aspettativa del più open-minded dei lettori, questo è Haruki Murakami.

Tendenzialmente, Murakami si ama o si odia; alternativamente, si cerca di dimenticarsene, come si fa con un sogno né bello né brutto ma piuttosto perturbante. Certamente, come recensione potrebbe non sembrare un granché, ma a ben pensarci proprio il fatto che i suoi libri provochino reazioni tanto forti sottolinea come, in un modo o nell’altro, ci si trovi davanti ad una narrativa potente.

Murakami lancia una sfida notevole al lettore contemporaneo e ci vuole esercizio per saperla cogliere: esige che il lettore la smetta di affannarsi alla ricerca delle sue consolidate abitudini letterarie e accetti il racconto per ciò che è: qualcosa di diverso. In che termini?

La maggior parte dei romanzi di Murakami comincia con un incipit ascrivibile, almeno apparentemente, a generi letterari facilmente identificabili: noir, giallo, romanzo di formazione, etc. L’ambientazione è quasi sempre quella del Giappone della seconda metà del Novecento; personaggi, tempo e spazio sono di stampo realista. Progressivamente, tuttavia, e con estrema naturalezza, iniziano a comparire elementi stranianti, estranei all’orizzonte realista di partenza, che oscillano costantemente tra la dimensione sovrannaturale, quella onirica e quella psicologica. La sensazione è analoga a quella descritta da Todorov in relazione al genere fantastico: un costante dubbio interpretativo del lettore, che non sa se considerare un fattore come sovrannaturale o come frutto di un inganno dell’immaginazione (i cattivi di Scooby-Doo sono un buon esempio del secondo caso, per intenderci). Tuttavia, mentre il genere fantastico oscilla tra due poli piuttosto netti e definiti (sovrannaturale – non sovrannaturale), con Murakami la faccenda si complica: all’oscillazione si compenetra una sovrapposizione di piani interpretativi, che creano una dimensione fortemente simbolica ma mai del tutto allegorica.

Ciò che spesso irrita, quando si prende per la prima volta in mano romanzi come 1Q84 oppure Dance dance dance, è che questo amalgama fantastico-simbolico-onirico non viene spiegato, né viene fornita una chiave interpretativa. Semplicemente esiste, in sfregio all’isteria del lettore, che indignato vuole sapere cosa diamine sta succedendo. Ma è proprio questa la morale: non si può sempre sapere cosa sta succedendo. Personaggi fondamentali che, improvvisamente, si defilano; sparizioni misteriose; conflitti estinti pacificamente. Non si tratta di un nonsense casuale, un ammasso di complicazioni senza capo né coda, tutt’altro: la percezione di un senso nascosto, ma presente e tangibile, rimane sempre costante in tutta la narrazione ed è sfibrante continuare a leggere, tendendo la mano, sfiorandone il significato senza mai riuscire ad afferrarlo. Il senso c’è, ma non si può afferrare con la logica, non può essere semplicemente spiegato a parole.

La narrazione di Murakami, in questo senso, è narrazione mitica: una narrazione visuale, per simboli, ma soprattutto per suggestioni. È un genere di letteratura che sceglie di accantonare per un momento la conoscenza logica e di ridare fiducia alla conoscenza estetica, alla capacità comunicativa dell’immagine, all’intuizione, che arriva là dove il pensiero razionale non può spingersi; il lettore deve riabituarsi a questi moduli, che di certo non sono nuovi nella storia della letteratura, ma che non sono nemmeno frequenti, specialmente nei romanzi. Deve, insomma, rassegnarsi al fatto che una spiegazione non si può dare, non nei termini che ci si aspetterebbe per lo meno, un po’ come nei racconti trascritti da Propp, dove un lupo magico decide senza ragioni apparenti di aiutare quell’imbranato del principe Ivanov ed è inutile spendere le notti a chiedersi perché. La spiegazione va percepita, per così dire, in un’esperienza che non dà nessuna sicurezza interpretativa, nessuna rivelazione finale ma che, proprio per questo, ha un potenziale riflessivo imponente, che guida il lettore su sentieri nuovi del pensiero. Accettare l’incertezza e imparare a conviverci senza forzare una soluzione semplicistica è la grande sfida al lettore, una sfida i cui risultati sono riciclabili anche nella vita, si potrebbe suggerire.

Se questa descrizione può far pensare ad una lettura ostica, in realtà non è affatto così: lo stile di Murakami è prezioso, elegante, gentile, ma anche estremamente preciso e concreto; si ha la sensazione, leggendo, che ogni parola non possa essere che esattamente quella, esattamente lì e in quel momento: insostituibile. La materialità della vita e dei personaggi, messa a rischio dalle continue incursioni oniriche, è restituita da descrizioni minuziose e mai noiose: il cibo, il corpo umano, la sostanza degli oggetti e dei luoghi vengono rese con una nitidezza impressionante. Anche gli argomenti apparentemente più osceni, dalla masturbazione all’omicidio, vengono sottratti al tabù che spesso li annebbia e restituiti al lettore con vivida chiarezza, con naturalezza, senza scandalo e senza asetticità. Inoltre, i romanzi di Murakami sono accompagnati da una vera e propria colonna sonora: continue citazioni di brani, che spaziano dal Trio dell’arciduca di Beethoven al rock anni ’60, contribuiscono a dare tono all’atmosfera e sembrano invitare il lettore a mettere mano agli auricolari. Al panorama musicale, si aggiunge quello letterario: sono frequenti, implicitamente o meno, i riferimenti ai grandi della letteratura occidentale, da Cechov a Euripide, che costellano il testo e creano una trama di riferimenti e reinterpretazioni.

Infine, i personaggi sono qualcosa di unico: lontanissimi da qualunque stereotipo o cliché, non permettono al lettore di comprenderli appieno nemmeno nell’ultima pagina, e per questo, pur nelle condizioni più improbabili, conservano una credibilità e una veridicità interiore inintaccabili. Complessi, contraddittori, spesso spinti dalle circostanze lungo sentieri imprevisti, riescono ad essere originali e al contempo universali, portando sempre con loro un piccolo specchio nel quale il lettore riesce a riflettersi.

Leggere Murakami è un’esperienza piacevole: a volte dà dipendenza, a volte no, ma sicuramente offre sempre uno spunto di riflessione prezioso. E un ottimo esempio di stile.

Consigli di lettura: una delle interpretazioni date scherzosamente -credo- da una mia amica, lettrice accanita, è quella che Murakami faccia uso di acidi e funghetti. Questo per dire che, a mio avviso, ogni tanto gestire la parte onirica dei suoi romanzi può essere impegnativo. Se dovessi consigliare, dunque, una casella di partenza farei riferimento a Dance, dance, dance e 1Q84. Per chi invece non si sente ispirato dalle componenti stranianti, consiglio Norwegian Wood. Tokyo Blues, che a differenza di altre sue produzioni non presenta elementi di questo genere ed è di stampo più realista. Ricordo inoltre che Murakami è stato anche autori di numerosi saggi, nonché protagonista di una vita davvero originale ed interessante: informazioni al riguardo si trovano, banalmente, su Wikipedia o sul sito italiano: http://www.harukimurakami.it

 

Eugenia Beccalli

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