Immaginate un palcoscenico tra i più importanti d’Italia e una platea piena di persone che vi stanno guardando. Immaginate di dover rappresentare un ruolo molto introspettivo e difficile. Riuscite a figurarvelo? Bene, ora pensate di doverlo fare nudi. Completamente ed irrimediabilmente nudi, esattamente come mamma vi ha fatti.
No, non sto descrivendo il peggiore dei vostri incubi, ma un’esperienza reale che io ed altre nove ragazze abbiamo appena concluso.
Tutto è iniziato una pallida giornata di gennaio, quando il mio cellulare è risorto dal coma domenicale a causa di una chiamata. A parlare è un giovanotto che mi chiede di concedergli cinque minuti del mio tempo: già pronta a chiudere la chiamata con un secco “No, grazie. Non m’interessa”, mi blocco sentendo che chiama dal Teatro Regio di Torino. Lo stesso Teatro Regio che solo un mese prima aveva liquidato la mia domanda di lavoro con un «in considerazione del grande numero di aspiranti, e della presenza di prove migliori, riteniamo che Lei non possa essere convocata se non in casi particolari». Il “caso particolare”, nello specifico, consiste nel fatto che, se il regista mi scegliesse, dovrei recitare nuda ed io molto spavaldamente dico di sì.
Due giorni dopo sono lì a fare i provini; ci sono almeno sessanta ragazzi posteggiati nell’ingresso ad aspettare e solo una ventina scarsa di ragazze. Nessuno sa nulla eppure circolano tante voci che mi sembra di essere seduta ad un bar di paese assieme ad un gruppo di comari: “Ci faranno spogliare per vedere che non ci siano malformazioni”, “vogliono dieci uomini e dieci donne”, “saremo nudi ma dipinti con una pittura rossa”, “io ho recitato alla Scala e alla Fenice”. Ho sentito tante di quelle soffiate (e neppure una vera!) che sono entrata con la consapevolezza più totale di non avere alcuna speranza, né per caratteristiche fisiche né per capacità professionali.
Il mio sconforto è sceso sotto le scarpe quando ho scoperto in cosa consistesse davvero il provino.
Il regista ci fa mettere in cerchio e ci dice di imitare tre animali, prima un uccello, poi una bestia feroce e infine una scimmia: fin qui nulla di complicato, penso; poi ci dispone in fila sul fondo della sala e dice che gli stessi animali dobbiamo ora rappresentarli solo con i muscoli del volto e, gran finale, solo con gli occhi! Ora, certo fra voi ci saranno attori meravigliosi che reputeranno tutto ciò una cosa banale, ma io giuro che stavo per scoppiargli a ridere in faccia. Fatto sta che io con gli occhi un animale sono riuscita a rappresentarlo ed era la cernia. Quel giorno, il regista aveva scordato gli occhiali a casa (o come sospetto ha semplicemente fatto Ambarabà ciccì coccò) e ha visto in me una promessa teatrale, perciò eccomi qui sul palco del Regio.
So che probabilmente in molti si staranno chiedendo dove io possa aver trovato il coraggio: posso solo rispondere che non l’ho neanche cercato. Mi sono presentata convinta di non essere neppure presa in considerazione e quando mi è stato chiesto il mio nome, per quanto stupido possa sembrare, il primo pensiero è stato “Stanno segnando gli esclusi”; non ho capito di essere stata scelta fino a quando non sono stata portata dal truccatore per verificare che il mio tatuaggio si potesse nascondere. In quel momento mi sono perdutamente innamorata e ho capito che dovevo farlo, che non avevo scelta: forse saprete che sono una degli organizzatori del gruppo teatrale del Convitto, ma non ho mai pensato che questa passione potesse diventare un “futuro”. Eppure, entrando nello studio del truccatore/parrucchiere, con il soprano della “Tosca” che faceva la prima donna ed il tenore poco più in là che scaldava la voce, mi sono sentita felice come non mai.
Anche se, ovviamente, non ho un ruolo di rilievo, ma sono soltanto una comparsa (in gergo tecnico sono una “mima” che è più in alto di un semplice “figurante”), la preparazione e le prove sono state molto dure: siamo le dieci monache che compaiono nell’ultima scena de “L’angelo di fuoco” di Prokof’ev, e insieme alle molte altre monache (coriste) vediamo spiriti demoniaci che ci porteranno alla morte. È stato incredibilmente difficile riuscire ad ottenere ciò che David Freeman, il regista, ci chiedeva: innanzitutto perché si tratta di una scena molto movimentata, che richiede una velocità ed uno sforzo fisico non indifferenti; in secondo luogo, David, australiano al 100%, non parlava altro che inglese, non solo a noi, ma anche agli acrobati russi che con noi prendono parte alla scena e che parlano esclusivamente la loro lingua madre; infine, l’ostacolo più grande da superare è stato riuscire a immedesimarsi nel personaggio e creare la nostra storia.
Quest’ultimo punto è stato davvero estenuante: bisogna imparare a vivere un’altra vita, a sentirsi completamente un’altra persona, provandone i sentimenti, le paure, le sensazioni. Eliminando te stessa devi raggiungere un momento di trance, in cui diventi una monaca impossessata dal diavolo, un essere che apre gli occhi per la prima volta su un mondo nuovo e riscopre il suo essere “animale”. E tutto questo, non smetterò mai di dirlo, nude e in mezzo ad un’orgia satanica di spiriti.
Forse non vincerò nessun premio per la mia performance o forse, contro ogni aspettativa, un talent-scout mi avrà notata e produrrò un gran numero di film porno, ma di sicuro è stata un’esperienza divertente ed emozionante, di quelle che (purtroppo o per fortuna) capitano solo una volta nella vita.
Giulia Porcellana