Ospite d’onore della Notte del Liceo Classico 2018 è stato Piero Bianucci, scrittore, giornalista e divulgatore scientifico. Il suo intervento, dal titolo “Ma i chimici e i fisici sanno scrivere anche senza formule?” e centrato sul tema “Scienza e umanesimo: una cosa sola”, è stato seguito da un’intervista a cura degli inviati del nostro giornale. Un momento altamente coinvolgente, ricco di spunti e curiosità. Una lunga chiacchierata di fronte al pubblico, che non ha deluso le aspettative.
Lei conosce bene il mondo della scuola. Che percezione ha dello stato di salute della scuola italiana e, in particolare, del liceo classico?
Io ho fatto il Liceo Classico e non me ne sono pentito. Ho fatto poi Lettere e Filosofia, ma mi sono pentito delle Lettere. La mia tesi era infatti di Filosofia, e ci ho lavorato con Luigi Pareyson, un filosofo secondo me molto importante, che ha avuto molti allievi altrettanto importanti e che probabilmente conoscete: Umberto Eco e Gianni Vattimo. Il mio rapporto con il Liceo Classico è stato ottimo, anche se ero completamente impreparato all’esame di Maturità. Sono stato ammesso con due cinque, tra cui scienze, che è la materia di cui poi mi sono occupato. La versione di greco l’ho copiata da un compagno e il resto l’ho un po’ improvvisato, però sono uscito con la piena maturità di quell’anno: un sacco di dieci! Ho capito che la maturità è questo: non arrivare lì con tutte le nozioni, ma con quel tanto che ti permette di padroneggiare creativamente la situazione in cui ti trovi. Da questo punto di vista considero molto importante l’esame di stato, che è ritornato ad essere difficile com’era allora e sono contento che sia così. Andateci, magari, con poche nozioni (io ne avevo davvero poche), ma portatene alcune al massimo dell’approfondimento possibile, siate molto solidi in alcuni ambiti. Perché è vero che il greco e il latino sono discipline formative, ma lo è anche la chimica. Materie che ci insegnano soprattutto un metodo, un modo di ragionare, una logica. Bisogna cavarsela! Questa è la lezione che mi sento di darvi. La qualità della scuola italiana, secondo me, è in media buona, anche se con disuguaglianze forti. Ho presente i dati OCSE che la valutano e so che siamo ancora molto lontani da altri paesi, però il nostro Trentino Alto Adige rivaleggia in matematica con la Finlandia! La Finlandia fa fatica a rivaleggiare, però, con la Corea, perché sono ancora più bravi. Nelle discipline umanistiche valutare diventa difficile. Come si fa a valutare un bellissimo saggio su Leopardi, quando viene letto da tre specialisti che lo apprezzano e poi totalmente ignorato dalle classifiche che valutano la qualità delle pubblicazioni? Questo è un problema. La cultura umanistica, mi spiace dirlo, si capisce solo in un colloquio. Bisogna parlare con le persone, così come bisogna parlare con gli studenti, non interrogarli, ma dialogare con loro nell’esame di maturità. Quello che mi sentirei di dire è che va ancora bene fare il Liceo Classico. La preparazione in latino, greco, letteratura italiana, filosofia e storia mi è servita. La cultura è quello che resta una volta dimenticate tutte le nozioni, anche senza sapere niente.
Il tema della serata è Scienza e Umanesimo: una cosa sola. Ha ancora senso, allora, parlare di liceo classico e liceo scientifico?
Ecco, questo è proprio il senso del mio intervento. Ovvero, i chimici e i fisici sanno scrivere? Sì, lo sanno fare, anche se non sempre i letterati sanno scrivere formule di chimica e di fisica. Allora la risposta è proprio qui: bisognerebbe fare un liceo che abbia tutte le difficoltà e tutte le bellezze dei due licei, anche se poi ora non sono più solo due, ma ce ne sono tre, quattro, cinque, sei…però, diciamoci la verità, i licei “veri” sono solo due. Questi due licei sono molto complementari, tant’è che se avete dei buoni insegnanti fate un classico che è anche uno scientifico e vice versa. Se invece non incontrate gli insegnanti giusti fate un liceo che o è classico o è scientifico. Quindi sì, la distinzione non ha più molto senso, ma esiste ancora nella storia di questo paese, è legata alla riforma Gentile. Primo Levi diceva addirittura: “io come scrittore godo di un vantaggio illecito, perché ho un repertorio di concetti, di metafore che i letterati puri non hanno”. Per esempio, io posso parlare di atomi di carbonio, ma un letterato puro che non sa cosa sono gli atomi di carbonio, non li ha nel suo repertorio concettuale e non li ha quindi nel repertorio da cui attinge quando scrive i suoi romanzi. Levi ce l’aveva. E poi, pensate a quanto di chimica c’è nella nostra vita: il concetto di reazione chimica lo usiamo continuamente come una metafora – ad esempio, un amore è una reazione chimica fra i sentimenti di due persone, ovvero due elementi che si fondono assieme per creare qualcosa di nuovo. Questo, secondo me, è letteratura, è poesia; non è né chimica né fisica, nonostante il repertorio da cui togliamo il concetto di reazione chimica sia scientifico. Allora, tutti i vari registri di scrittura che attingono ad ambiti diversi, ma che alla fine vivono dentro di noi, sono un arricchimento. Per questo sarei favorevole ad un liceo unico, difficilissimo, ma bellissimo – anche perché poi la vita stessa è un liceo unificato, non pensate di uscire dal liceo o dall’università e non studiare più. Gli studi durano fino all’ultimo minuto della vita: un minuto prima di morire ognuno impara qualche cosa, se non altro sicuramente su come si muore. Quindi bisogna assolutamente pensare che la scuola non finisca mai e quello che non fate adesso lo farete dopo.
Oltre ad essere un divulgatore scientifico, lei è anche un giornalista e uno scrittore. Quali sono stati i suoi modelli letterari?
Uno è sicuramente Primo Levi. Poi Gadda, Calvino e Borges sicuramente. Però, ho letto di tutto, nella mia vita ho avuto varie vite. Ho passato i miei primi quindici anni di lavoro come critico letterario, alla Gazzetta del Popolo, giornale che ora non c’è più dall’81. E lì facevo la terza pagina, quella dei libri che si chiamava “diorama letterario”, una parola quasi oscura che sembra una bestemmia a chi non ha studiato il greco. Nella mia vita ho vissuto di cose letterarie. Poi però andando a la Stampa nell’81 ho avuto la fortuna di fondare e fare per 25 anni “Tutto Scienze”. Quindi, in realtà i miei modelli nella divulgazione scientifica sono diventati ancora altri. Sicuramente Primo Levi. La Royal Institution, che come sapete è l’istituzione culturale più importante d’Inghilterra, ha detto che Primo Levi è stato il più grande divulgatore scientifico di tutti i tempi, e anche molto di più di un divulgatore scientifico. Poi ho imparato molto da Asimov. Mentre, per parlare di italiani, Paolo Maffei, che ha scritto dei bellissimi libri di astronomia negli anni settanta e ottanta. Ho imparato da Camille Flammarion, un astronomo francese che ha scritto saggi scientifici molto belli. Ho imparato da Fred Hoyle. Generalmente la divulgazione scientifica si impara bene se studi e leggi degli autori anglosassoni, perché sono maestri in questo. In più li aiuta anche la sintassi, in quanto è molto più ritmica e sincopata, le frasi sono soggetto-verbo-complemento-punto. Noi invece abbiamo una costruzione delle frasi più complessa, che non si presta così bene per la divulgazione scientifica. Quindi leggere autori inglesi dà un modo di parlare ritmico che non è solo adatto all’educazione, ma anche alla narrativa. Hemingway, ad esempio, ha fatto una bellissima narrativa, proprio grazie alla brevità delle frasi e delle parole stesse.
Che cosa deve e che cosa non deve fare un divulgatore scientifico?
Deve innanzitutto domandarsi “quello che sto scrivendo si capisce?”. Quello che non deve fare è chiedersi “ciò che ho scritto piacerà a chi insegna all’università?”. Mai scrivere per gli altri colleghi divulgatori scientifici, o per il professore universitario che si ha intervistato per dimostrargli di aver capito perfettamente quello che ha detto. Non è questo che si deve dimostrare. I lettori prima di tutto! Si deve dimostrare di farlo capire a chiunque legga, anche a costo di qualche approssimazione e con umiltà. Molte volte ho fatto rileggere i miei articoli a chi mi ha dato le informazioni. Non è umiliante. Se loro mi chiedono di cambiare lo stile dico “fai il tuo mestiere che io faccio il mio”, ma se mi correggono il contenuto, li ringrazio! Così come ringraziavo Primo Levi quando mi faceva notare degli errori su “Tutto Scienze”. Ci vuole questo rapporto un po’ paritario. Non bisogna andare lì dal professore o dallo scienziato come dei sudditi, però con umiltà sì sempre nella piena consapevolezza dei ruoli. Con Tullio Regge il rapporto è stato sempre questo. E lui ha sempre saputo essere anche un bravissimo giornalista. Piergiorgio Odifreddi, invece, un giorno si presentò a “Tutto Scienze” con un fascio di scritti sotto al braccio, “vorrei scrivere su la Stampa! Ho portato qui una ventina di articoli”. Me li fa vedere, ed erano dei bellissimi microsaggi ognuno di cinque-dieci cartelle, senza una sola notizia dentro. Io gli ho detto che i giornali sono fatti di notizie, articoli brevi, mentre i suoi erano lunghi. “Ho capito” mi disse. Tornò una settimana dopo. Aveva sotto al braccio venti articoli. Ognuno conteneva una notizia, ed era lungo quattromila battute, ovvero la lunghezza standard di un articolo di giornale. Il rapporto deve essere questo. Anche Regge aveva questo istinto, lui è stato vent’anni a Princeton, il famoso istituto dove sono stati anche Einstein e Godel, il più grande logico e matematico di tutti i tempi, che ha fatto il teorema di completezza. Regge aveva preso quasi sempre 5 di italiano al liceo scientifico, però aveva un istinto della comunicazione straordinario. Dopo che ha preso un po’ la mano, potevo telefonargli alle dieci di sera e dirgli “c’è questa notizia” e lui diceva “va bene”. E mezz’ora dopo ricevevo un articolo della lunghezza giusta che potevo prendere e mandare in tipografia. Aveva dei tempi di reazione velocissimi, come un giornalista. Un giornalista deve scrivere in mezz’ora un pezzo, perché è il suo lavoro, un fisico no. Lui lo sapeva fare. Ma non era nato così, si era istruito da solo e nel dialogo con un giornale ha capito quali erano i meccanismi giornalistici. Ci sarà una seconda mostra dal 14-15 di febbraio, dopo “L’infinita curiosità”, stavolta all’Accademia Albertina, che sarà fatta con i disegni di Tullio Rege. Lui disegnava al computer, forme geometriche con titoli stranissimi: ironici e molto spiritosi. Tutto questo per dirvi che la divulgazione scientifica è una tecnica che si può imparare. Non è letteratura, è una cosa molto più bassa come livello, che però ha una sua utilità.
Lei afferma, nelle sue interviste, che l’umorismo è la forma suprema dell’intelligenza.
Sì, ne sono fortemente convinto anche adesso.
Può però l’umorismo filtrare ogni tipo di divulgazione scientifica?
Deve! La divulgazione che non contiene umorismo è insopportabile. L’umorismo è la capacità di rovesciare il proprio punto di vista, di guardare le cose all’improvviso da un punto di vista diverso. E la creatività artistica, letteraria e scientifica è questo, saper guardare le cose da un punto di vista diverso. La stessa cosa dell’umorismo. I risultati possono essere diversi, ma i meccanismi sono gli stessi. Sarebbe una storia lunga, un’altra volta ve la racconterò.
Intervista a cura della redazione di UT
Trascrizione di Emma Barraco e Ginevra Galliano