Nel quadro di una situazione confusa quanto controversa riguardo al progetto di Alta Capacità Ferroviaria Torino-Lyon, un tema dal quale tutti noi siamo implicitamente toccati, diventa sempre più necessaria un po’ di chiarezza in questa marea d’incertezze che popolano sovente la fantasia e l’immaginazione dell’uomo medio, troppo spesso disinformato e vittima di una pressione mediatica rivolta verso un’unica direzione.
Stando agli ultimissimi eventi di cui quel remoto angolo delle Alpi Occidentali, conosciuto con il nome di “Valle di Susa” da alcuni anni è stato protagonista, riferiamo la cronaca fedele di una manifestazione svoltasi in queste ultime settimane.
Il nostro taccuino riporta queste parole: “È il 23 ottobre 2011, siamo in Val di Susa, in quel piccolo paese, Giaglione, divenuto negli ultimi mesi uno dei centri della cronaca nazionale. Poco distante da noi si trova quella porzione di territorio militarizzata abusivamente, definita spregiativamente da media e politici “Zona Rossa”.
Fa freddo. La temperatura è poco superiore ai 4 gradi, ma una calda accoglienza ci invoglia a restare in questa piccola borgata di montagna, sconosciuta fino agli ultimi sviluppi della spinosa questione sull’alta velocità ferroviaria.
C’è gente, molta gente, che quasi trabocca nei cortili e nelle aie delle vecchie case tipiche del luogo. Le cinque lettere rosse su sfondo bianco, motto e simbolo del movimento, accompagnate da striscioni di varia natura e da molti drappeggi Sabaudo-piemontesi, sembrano fare da cornice ai tanti volti che senza saperlo sono il susseguirsi di simboli di un pezzo di storia del nostro Paese. Il corteo parte, siamo in tanti, più del previsto certamente, invadendo pacificamente gli antichi boschi della Val Clarea. Le vette innevate della Rocca d’Ambin e dei Tre Denti sembrano vegliare sugli abitanti che da secoli ne traggono sostentamento.
La manifestazione va avanti fino al primo pomeriggio, quando gruppi di donne, uomini e bambini, si adoperano per tagliare simbolicamente un pezzo di recinzione israeliana alta 3 metri e cosparsa di filo spinato degno dei peggiori conflitti armati del nostro pianeta. Il tutto in accordo con le autorità, che tramite migliaia di uomini di Esercito e Forze dell’ordine, rendono inaccessibili le tante vigne e aziende presenti all’interno della “Zona Rossa”.
La giornata si conclude senza le violenze drammatiche preannunciate incessantemente dai canali d’informazione”.
La lunga e pacifica marcia svoltasi in questa memorabile giornata, una di quelle che resterà per sempre nei ricordi di chi l’ha vissuta, rappresenta solo l’ultima fase di un grande capitolo di avvenimenti mai accaduti in altri luoghi o tempi.
Un grande movimento trasversale, infatti, che ha come valore fondante la Non-violenza, la libera condivisione d’idee e dottrine e che per decenni si è rinnovato rimanendo comunque sulle stesse posizioni e con la medesima determinazione, costituisce un grande esempio di coesione sociale e di aiuto reciproco tra persone che forse non hanno nemmeno nulla in comune, oltre che di grande coerenza e di rispetto dell’uomo e della natura.
Un esempio che, purtroppo, nella nostra società si può considerare più unico che raro.
Già, perché l’argomento Alta Velocità Torino-Lyon non è nulla di nuovo sotto il sole.
Il progetto ambizioso e complesso del TAV, di cui s’iniziò a parlare negli anni 80′, ma sul quale ancora oggi, dopo accordi bilaterali, sperpero inutile di denaro pubblico, falso giornalismo esplicitamente di parte, fiumi di vane parole, non è stata presa una decisione definitiva sul tracciato, è datato 1989. Nel primo incontro, l’anno successivo, fra due ministri dei trasporti, l’italiano Bernini e il francese Delabarre, si parlò di due fasi distinte: la prima che prevedeva la velocizzazione dei collegamenti esistenti e la seconda che riguardava la realizzazione di una nuova linea per il TGV, con la costruzione di due tunnel (di cui uno lungo oltre 50 chilometri). Quella che sembrava la realizzazione di un “anello mancante” della rete europea ad alta velocità, un progetto strategico di portata storica, cominciò ben presto a far nascere perplessità e voci di dissenso che nel tempo si sono moltiplicate sia a livello ufficiale, sia fra gli abitanti della Valle, dando origine al “Movimento NO TAV”. Il parere negativo dei sindaci della Valle, inoltre, venne manifestato già nel 1993.
Non piacquero neppure le procedure di studio delle attività da effettuare: indagini geologiche ed idrogeologiche, censimenti dei corsi d’acqua e delle sorgenti e ricerca delle possibili aree di sbocco dei tunnel. Nonostante l’evidente dissenso popolare partirono i cantieri nella media valle allo scopo di installare le trivelle per i carotaggi preventivi alla progettazione della linea.
Gli abitanti della Valle iniziarono così a scendere in piazza sempre più numerosi, sviluppando un sentimento simile a quello degli “Indiani delle riserve”.
La vera stagione dei grandi cortei si aprì però nel 2001: dai 3.000 partecipanti si passò ai 15.000 del 2003, poi ai 30.000 del luglio 2005. Ebbe inizio in seguito la stagione del cosiddetto “Autunno caldo” del 2005, che vide la militarizzazione di una buona parte di valle e un allargamento della base del movimento. Ci furono poi le manganellate degli agenti dei Reparti Mobili, che spazzarono via nel sangue settimane di proteste che avevano raggiunto, pochi giorni prima, gli 80.000 partecipanti.
La situazione si ripeté nell’inverno 2009/2010, quando, tramite una serie di blitz spesso notturni, Carabinieri e Digos cercarono di posizionare trivelle e ruspe occupando con la forza l’area di Susa. Si concluse con un nulla di fatto.
Ed ora, eccoci qui, nel pieno di questo freddo autunno del 2011, con un fortino militare largo diversi chilometri quadrati, dopo che per tutta l’estate sono rimbombate nella nostra testa le parole: “Scontri, lacrimogeni, feriti, manganelli” spesso e volentieri accompagnate gratuitamente da: “Violenza, Black-block, facinorosi, anarchici” senza nemmeno avere una chiara visione di cosa significhino questi termini.
Verrebbe da domandarsi come mai nonni e bambini, donne e uomini, giovani e un po’ meno giovani, vicini, parroci, gruppi di scout, bardati di bandiere e magliette, si siano per di più di vent’anni adoperati lasciando magari il lavoro, lasciando le occupazioni quotidiane, sacrificando giorni festivi e feriali, a costruire blocchi, barricate, a creare presidi, a partecipare a manifestazioni senza averne alcun guadagno.
Le risposte dell’opinione pubblica a questo quesito sono state molteplici. Dai “montanari contro il progresso” si è passati a “affetti da sindrome di Nimby (Not In My Garden, Please) “, come a “campagnoli contro l’apertura del nostro paese all’Europa”, fino ad essere etichettati come “Anarco-insurrezionalisti che vogliono attentare allo Stato”.
Certo, purtroppo, non si può pretendere molto da un Paese in cui i canali d’informazione sono monopolizzati e controllati dai promotori stessi dell’opera, e dove moltissime persone si sono dimenticate che l’uomo, per vivere, ha bisogno di acqua, aria e terra, non di cemento, acciaio e velocità.
Sorge dunque quasi spontanea una domanda: perché gli abitanti della Val Susa non vogliono il TAV?
Innanzitutto, bisogna considerare che una Grande Opera o è fortemente utile e necessaria, altrimenti è fortemente dannosa, perché, oltre alle pesanti ricadute ambientali (e quindi negative su turismo ed economia), sottrae una quantità esorbitante di fondi pubblici che potrebbero essere destinati ad altri fini.
Viene così a configurarsi la necessità impellente e vitale per l’opera stessa, di creare ragioni fondate per giustificare questo enorme dispendio di risorse. In questo caso, le frasi più gettonate dai promotori, anche occulti, ed interessati finanziariamente alla costruzione della linea in questione, sono riconducibili al tema comune del sovraccarico di traffico sulla linea “storica” già esistente, nonché sulla presunta saturazione della stessa e sul tema tanto caro dell’occupazione e dei posti di lavoro che si creerebbero. A questo proposito, vale la pena citare l’Osservatorio sul TAV, un tavolo di confronto sulla questione durato diversi anni, composto da sindaci della Valle di Susa e ditte appaltatrici dei lavori. Durante le numerose e interminabili sedute che si sono susseguite, presiedute anche dall’On. Virano, è stato prodotto un documento ufficiale, denominato “FARE”, nel quale sono contenuti i dati sul volume di traffico transitante in Val di Susa. Ebbene, è ampiamente dimostrato che la mole di merci passante per il tunnel del Fréjus nel 2010, non solo non ha raggiunto le previsioni di F.S. di 20 MT (milioni di tonnellate) ma addirittura è diminuito di dieci volte, stabilendosi sui valori prossimi alle 2 MT. Non solo: è stata avviata una proposta di razionalizzare e potenziare, se necessario, la linea esistente, che, sempre secondo i dati, è sottoutilizzata e potrebbe trasportare cinque volte il traffico attuale.
Questa ipotesi, che comporterebbe il massimo del risparmio in termini di denaro pubblico (a fronte delle decine/centinaia di miliardi di euro necessari alla realizzazione della nuova linea), un tempo nettamente minore (pochi anni di lavoro a fronte di decine), un impatto ambientale nemmeno minimamente paragonabile a quello che si creerebbe scavando 70 km di tunnel nella montagna (l’infrastruttura esiste già) e un disturbo alla popolazione quasi impercettibile. Questa soluzione è però ovviamente osteggiata dalla totalità delle grandi sfere politico-industriali.
Tralasciamo la lunga serie di dati, più specifici in merito all’opera, relativi alla devastazione ambientale, alla corruzione del sistema retrostante ed alla pericolosità dei cantieri con rocce amiantifere, per alcuni aspetti sconvolgenti, che si possono trovare comodamente si siti internet, pubblicazioni varie e opuscoli, per cercare di concludere facendo una riflessione su aspetti più generali, ma non meno importanti.
Sarebbe opportuno, infatti, prima di realizzare una così mastodontica impresa, porsi almeno la domanda: “Ha senso farlo?” In fondo come ha detto Beppe Grillo: “Perché mai le mozzarelle dovrebbero viaggiare ai 250 km/h piuttosto che ai 130? Cadrebbero forse in depressione?” (battuta per evidenziare che anche senza i treni super-veloci gli scaffali dei supermercati non sono mai rimasti vuoti, ndr). La risposta è evidentemente “no”, la frase di Grillo è puramente polemica; fa cadere con poche parole il castello di carta costruito dai promotori dell’opera, sottolineando l’inconsistenza delle ragioni da loro presentate a sostegno dell’inutile opera.
Solo in questo modo, forse (tralasciando problemi di tipo ambientale, economico, tempistico e il fatto che questi temi, essendo la linea in una tratta montana, non potrebbero comunque superare i 130 km/h), potranno così apparire vuote e prive di senso le frasi come: “Consentirà una crescita di 1,5 punti di Pil l’anno e 7 mila posti di lavoro […] Sarà un treno per tutto il nord Italia: 17 milioni di abitanti, un Pil da 600 miliardi, 1 milione e mezzo di imprese” [La Repubblica, 4 Luglio 2011]. Detto questo, sta ovviamente al lettore valutare le differenti argomentazioni e scegliere le più convincenti.
Ruben Casa, Daniele Godina Pent (3B)